Meritocrazia?


È innegabile che in Italia sia importante premiare di più il merito, ma la meritocrazia, figlia di un connubio ideologico tra moralismo e neopositivismo, potrebbe rappresentare un grave problema proprio per chi la invoca. È una medicina che vorrebbe rendere la società più efficiente e la vita dei singoli più giusta, ma rischia di aumentare lo stress da competizione generando ancora più ingiustizie.

È una parola che sembra antica, inganna perché suona come democrazia, in realtà è stata inventata dal sociologo laburista inglese M. Young nel 1958. Letteralmente significa “potere al merito”.

Esiste addirittura una formula per definire il merito: m=IQ+E, quindi il merito è il risultato della somma del Quoziente di Intelligenza QI più lo sforzo E. Da una parte una dote naturale e dall’altra l’impegno personale.

Prendiamo per buona la formula e ragioniamo sui suoi addendi: il QI dipende certo dall’educazione ricevuta e da fattori che sono sociali ed ambientali (non c’è grande merito in tutto ciò, hai solo vinto la lotteria della vita) e l’impegno dipende dal giudizio degli altri, dal contesto storico e politico, non può certamente essere un fatto oggettivamente misurabile, né può contare l’autovalutazione. Il merito infatti viene valutato da qualcuno che stabilisce i criteri e valuta. Nella società staliniana o in qualsiasi dittatura il criterio del premiare lo sforzo, che pure era ben presente, non ha certo creato una società giusta.

Insomma anche se c’è una formula a me sembra un pasticcio che ci aiuta poco a definire il merito e come valutarlo.

Quando Young scrisse il suo saggio nel quale inventava la parola meritocrazia, non gli attribuiva certo un valore positivo: la sua era una critica profonda ad ogni sistema che si fosse basato su questo concetto. Per lui questo principio era letteralmente pericoloso poiché, Aristotele l’aveva già detto, il principio meritocratico sarebbe stato l’anticamera della tecnocrazia oligarchica, l’annullamento della democrazia.

Ha certamente senso che chi merita di più ottenga di più, non fino al punto di attribuirgli un vantaggio eccessivo rispetto agli altri; né è accettabile l’egualitarismo, l’1=1, anche se tutte le persone devono avere garantito uguale trattamento ed uguali opportunità, che è il contrario della meritocrazia.

Come si vede il problema del merito non è così semplice da districare.

Se definiamo la tanto invocata meritocrazia come l’idea guida di una società in base alla quale le responsabilità vanno attribuite a coloro che mostrano maggiore intelligenza e doti naturali, oltre ad avere un maggiore impegno nello studio, nel lavoro e nella vita, il problema in realtà non si chiarisce ed il risultato può risultare paradossale: tutti gli ambiti nei quali la meritocrazia è regola, in particolare quando è possibile applicare criteri “oggettivi”, producono diseguaglianze economiche e sociali. Pensiamo ad esempio allo sport professionistico nel quale il merito è valutato sulla base dei risultati misurabili conseguiti: una analisi dei compensi dei professionisti mostra come negli ultimi 30 anni il primo 10% abbia visto crescere le proprie retribuzioni circa 10 volte di più della crescita media in quello sport. È logico, se ci pensiamo, chi ha più soldi è disposto a pagare per accaparrarsi il primo e se non può il secondo e così via, ma quando sei l’ennesimo? 

Che cosa succede invece quando i criteri di valutazione del merito sono meno quantificabili, cosa succede in pratica nella scuola, nel mondo del lavoro o delle professioni? La strada che normalmente si segue è quella del valutare i risultati: hai conseguito una laurea? Hai vinto un concorso? Hai lavorato in una certa azienda? Più sono alti i risultati conseguiti, più la società meritocratica ti premia. E gli altri? La società meritocratica li punisce: se il tuo voto di laurea non è alto, se non ti sei laureato in una università di un certo tipo, se non sei arrivato tra i primi ad un concorso e così via è solo colpa tua! Non ce la fai a competere e quindi non te la puoi prendere con nessuno: la colpa del tuo fallimento è solo tua.

In pratica il merito viene misurato sulla base del curriculum. Partiamo dalla scuola: Thomas Piketty, noto studioso francese che si occupa delle disuguaglianze nella società, ha messo in evidenza che vi è una stretta relazione tra la geografia economica delle grandi città ed il prestigio delle scuole. I più ricchi si concentrano in alcune zone, che sono quelle dove hanno sede le scuole con una più alta reputazione.  Da sempre le élite che si sono formate nelle scuole di eccellenza tendono a rigenerarsi: i figli seguono spesso il percorso dei genitori, e per fortuna a volte anche i ricchi hanno figli stupidi o svogliati, altrimenti i ricchi sarebbero sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri.

Se poi si passa alla ricerca del lavoro, specie all’inizio, la valutazione dei candidati è certamente influenzata dalle scuole frequentate. D’altra parte scrivere un progetto in un buon inglese, parlare correntemente più lingue o superare un colloquio con una valutazione alta spesso dipende più dal contesto sociale di provenienza che dalla maniera con cui si è seguito il curriculum di studi.

In un processo di selezione è il merito che favorisce alcuni a discapito di altri o sono stati principalmente altri fattori?

Insomma in una società perfettamente meritocratica le disuguaglianze economiche e sociali tendono ad aumentare, mentre la competizione, le lotte, la frustrazione della maggioranza delle persone crescono e la meritocrazia concede una patente di moralità e legittima questo modello sociale.

Dove è finita la richiesta di democrazia che cercava di offrire a tutti una partecipazione alla società in piena uguaglianza? Dov’è la libertà di scelta educativa: è rimasta solo come dichiarazione di intenti nella nostra Costituzione?

Io credo che si debba perseguire l’idea di premiare il merito, ma quest’idea per funzionare necessità di una forte dose di recupero della responsabilità di chi sceglie. Deve essere spogliata della componente moralistica neopositiva. Gli esami a crocette apparentemente promuovono il merito, in realtà fingono di rendere oggettiva la valutazione, dimentichiamo la pretesa di oggettività nel valutare le persone: non è possibile, è una pericolosa illusione.

Piccole e Medie Imprese: sono davvero il problema?


Le PMI sono davvero il problema? Nella prefazione del PNRR firmato da Draghi la responsabilità della bassissima crescita del PIL italiano è attribuita alle PMI. Non c’è alcun cenno a responsabilità di altra natura che invece esistono. A parte la pericolosa generalizzazione e la necessità da parte di molte imprese di ripensare ai loro modelli, le cause del nostro grave deficit di produttività devono essere approfondite e non possono essere accettate a priori. Pena la distruzione della nostra economia e della nostra società.

Ho letto con attenzione il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR), un nome triste – le parole di moda come “resilienza” mi danno intrinsecamente fastidio, ma è un problema mio – suggerisco di leggerlo poiché è fondamentale per capire come viene disegnato il nostro futuro: indebitamento e possibilità di ripartenza.

È un documento costruito con un profluvio di 337 pagine piene di parole e numeri con un approccio serio e approfondito, ma fortemente determinato da uno specifico punto di vista. L’economia, infatti, è una scienza “debole”, come tante altre, non ha teoremi o certezze, non è come la matematica, anche se utilizza molti numeri e questo può trarre in inganno sulla sua attendibilità. È una disciplina che non può basarsi sulla sperimentazione, che non può utilizzare laboratori, anche se a volte abbiamo avuto la sensazione contraria. Si basa su congetture da cui si fanno discendere le ipotesi seguendo un processo razionale di concatenazioni di cause ed effetti. Maggiore è la complessità dei sistemi, maggiore è la possibilità che ci siano errori. Le congetture sono quindi un punto chiave e, nel nostro caso, le troviamo nelle premesse.

Mi ha colpito in particolare proprio nella premessa una affermazione: “Dietro la difficoltà dell’economia italiana…c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento.”… “Tra le cause del deludente andamento della produttività… la struttura del tessuto produttivo, caratterizzato da una prevalenza di piccole e medie imprese, che sono state spesso lente nell’adottare nuove tecnologie e muoversi verso produzioni a più alto valore aggiunto.”

Diamo un’occhiata al tessuto produttivo italiano.

Secondo ISTAT 2019 in Italia ci sono circa 4,4 milioni di imprese attive. Le imprese con meno di 9 dipendenti, le microimprese, rappresentano il 95,05% del totale, le grandi imprese con oltre 250 dipendenti e almeno 50 milioni di fatturato sono lo 0,09%, mentre le piccole e medie sono il 4,86%, pari a circa 213.000. Queste generano il 41% del fatturato, ed occupano il 33% degli occupati del settore privato.

Certamente le microimprese in genere sono un punto critico, tuttavia se consideriamo tutte assieme le aziende con più di 3 dipendenti queste sono poco più di un milione, producono l’84,4% del valore aggiunto nazionale, impiegano 12,7 milioni di addetti: sono un segmento fondamentale del nostro sistema produttivo. La premessa del sontuoso PNRR ritiene responsabili queste aziende della bassa produttività (considera anche le microimprese? La distinzione non è chiara) e quindi dei nostri problemi economici.

L’Italia differisce profondamente dalla struttura produttiva tipica delle altre nazioni europee e soprattutto dal modello culturale dominante, tutto orientato alla grande azienda. Siamo diversi perché abbiamo cultura, tradizioni e figure imprenditoriali diverse; sistemi fiscali e politici diversi. L’imprenditore non ha sempre avuto un vissuto positivo, come non è ancora chiaro a tanti che la ricchezza la creano le aziende.

Moltissime delle cosiddette PMI sono elementi fondamentali della creazione del valore di altre aziende, come quelle della moda, o sono parte essenziale ed integrante di catene del valore complesse e globali. Rappresentano un unicum che viene messo in discussione a causa di un approccio esterofilo, a volte troppo scolastico, senza un minimo sforzo di interpretazione degli aspetti positivi di queste storie imprenditoriali e delle reali cause dei problemi della nostra economia.

Certamente alcune responsabilità non marginali sono da attribuire alle PMI, ma penso che sia troppo semplicistico attribuire a queste la responsabilità dello stato disastroso della nostra economia, dimenticando completamente che queste generano ricchezza economica e spirito imprenditoriale e mettendole sotto accusa.

Prima di tutto una questione di metodo: un universo di circa un milione di soggetti non si può solo segmentare per settore di appartenenza, addetti, fatturato per poi emettere una sentenza. Bisogna analizzare in maniera più attenta per capire davvero la natura dei problemi.

Alcune considerazioni utili per discutere il PNRR che guiderà l’Italia nei prossimi anni.

  • Sembra quasi che piuttosto che partire dalla realtà e cercare come migliorarla, senza appiattirsi, si parta da un modello, quello della predominanza della grande impresa, considerato a priori virtuoso, perché tale è in altri contesti con storie imprenditoriali e culture diverse e si cerchi di applicarlo. È un pericolosissimo approccio verticistico, tipico di certa ingegneria sociale che può creare enormi danni alle persone.
  • Ricostruire secondo l’impostazione europea (loro mettono i soldi, anche se non tutti e quindi loro decidono) temo che ci porterà ad una forte dipendenza dall’economia pubblica, a discapito dell’imprenditoria privata, con tutto ciò che ne consegue.
  • Moltissimi settori sono penalizzati dalla mancanza di azioni efficaci che non possiamo aspettarci dai singoli produttori. Pensiamo ad esempio all’agroalimentare. Nella produzione vitivinicola e nei formaggi siamo leader in termini di quantità prodotte rispetto alla Francia, ma siamo deboli in termini di valore della produzione e di export, insomma loro spuntano prezzi medi più alti e vendono di più all’estero. Eppure i nostri prodotti non sono certo di peggiore qualità. Quanto dipende dal supporto di promozione che i francesi sanno fare? Loro hanno Lactalis ed i piccoli produttori, noi abbiamo ceduto Parmalat, Invernizzi, Galbani e Locatelli e questo è successo in molti comparti dell’agroalimentare, e non solo.
  • In molti settori, l’automobile, la meccanica, e così via abbiamo aziende di successo con elevatissime competenze; in altri, quelli tipici del Made in Italy il valore spesso è creato dalla filiera. Quanto del valore aggiunto di Gucci, ad esempio è creato dalle piccole aziende manifatturiere specializzate, capaci per creatività e competenze di produrre eccellenza?
  • Nel manifatturiero la ricerca di perfezione o dell’alta qualità non coincide con il paradigma della produttività, ma con la percezione del valore. Produrre arredamento di qualità richiede un approccio diverso da quello di Ikea, campione di produttività, se non difendo il prezzo finale la produttività crolla. È in questo ambito che la mano pubblica si deve impegnare in termini di reputazione e di supporto attivo se volgiamo difendere la nostra cultura.
  • Nella manifattura italiana c’è un grave problema di disponibilità di forza lavoro qualificata. Un’inserzione per cercare un giovane nel marketing porta, ad esempio a cento curricula, per cercare un giovane prototipista invece pochissimi CV. La formazione tecnica è la chiave per sviluppare il settore manifatturiero e non è solo un problema di investimenti, ma di metodo didattico.  Bisogna investire sulla formazione professionale, con gli ITS. Il vissuto sociale di queste professioni, che invece rappresentano una delle chiavi principali per il rilancio della nostra competitività, l’appeal che esercitano sui giovani e sulle famiglie è scarso.
  • Certamente è necessario integrare la digitalizzazione nella cultura delle PMI italiane, anche qui è necessaria una riflessione. Non possiamo immaginare un modello di formazione astratta e slegata dal modo di pensare degli imprenditori. È necessario trovare un nuovo modello centrato ad esempio su testimonianze dirette, sull’affiancamento operativo nel ridisegnare i processi, su un intervento nelle aziende che non sia basato sull’aula, ma sul lavorare assieme a risolvere i problemi.

Scuola migliore per un futuro migliore


Riflessioni sul dopo

Libertà di educazione e formazione permanente sono le vere sfide da affrontare quando si parla si scuola, di educazione e quindi di creazione di un futuro migliore. Non è una responsabilità da delegare ad alcuni, o da circoscrivere in un dibattito tra politica, sindacati e burocrazia: riflettere sul dopo è un dovere irrinunciabile di tutti poiché partendo dalla scuola si crea la società del futuro.

Stiamo aspettando la valanga di investimenti di circa 235 miliardi di euro che “forse” pioveranno sull’Italia dal 2021 al 2026, legati essenzialmente al “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR), un nome triste, costruito con una alluvione di 337 pagine zeppe di parole e numeri in stile perfettamente bancario e contabile.

I sei capitoli su cui si deve articolare questo piano monstre ce li ha dettati l’Europa, magari noi qui e là abbiamo un po’ esteso i contenuti per farci rientrare anche altri temi, ma niente di grave.

Per comprendere la situazione in cui ci troviamo dobbiamo aver presenti due aspetti: da una parte c’è il rischio, i precedenti non mancano, che per accontentare tutti si sprechi anche questa occasione; dall’altra un fatto è certo: la pandemia non è la causa delle disastrose condizioni in cui versa l’Italia. Risolvere un problema di questa dimensione non è solo questione di soldi, servono idee e visioni; non basta quanto si investe, la differenza si costruisce soprattutto sul come si investe e come si mette in pratica.

Al di là dei numeri i fatti: da troppi anni abbiamo una classe dirigente di bassa qualità in tutti gli ambiti: politica, imprenditoria, burocrazia, e così via. Nel Piano presentato da Draghi in qualche modo si parla di quelle, che sono definite “riforme di contesto”: giustizia (non è solo un problema di durata abnorme dei processi, ma anche e soprattutto di perdita di credibilità dell’arbitro), pubblica amministrazione e semplificazione legislativa (una ragnatela burocratica che opprime e soffoca la vita dei cittadini e delle aziende), concorrenza e fisco (un mostro onnivoro che divora ricchezza senza dare in cambio servizi adeguati). È vero che la situazione è profondamente deteriorata, e spesso questo facilita la ricerca di una soluzione, tuttavia non sono sicuro che cambierà qualcosa. Vedrete: siamo, al solito, ai pannicelli caldi.  Buone intenzioni, tentativi e poi, come Tancredi, gattopardescamente, ci adegueremo all’italico detto “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.  

Veniamo alla scuola. Il capitolo istruzione e ricerca ha a disposizione quasi 34 miliardi di euro e certamente alcuni aspetti come l’insufficiente presenza dei nidi e delle scuole di infanzia o la fatiscenza di molte strutture, possono essere risolti solo con adeguati stanziamenti. Molto probabilmente un lungo periodo di docenza a distanza non aiuterà gli studenti ad affrontare meglio il futuro scolastico e lavorativo. I problemi di fondo, però, non si risolveranno con gli investimenti: bisogna cambiare radicalmente prospettive e presupposti.  Paghiamo le conseguenze di un approccio al sistema educativo che da una parte ha banalizzato i contenuti ed escluso alcuni insegnamenti “inutili”, dall’altra ha portato alla promozione di chiunque, a volte anche nelle università. La scuola non deve solo istruire, deve prima di tutto educare. Bisogna alzare l’asticella, garantire a tutti una severa istruzione di base, senza regalare nulla, stimolare all’eccellenza docenti e studenti. L’insegnamento non è un ammortizzatore sociale. Non conta solo la percentuale di diplomati e laureati a confronto con le altre nazioni, bisogna alzare la qualità. Il fine primo non può essere quello di trasferire competenze specialistiche, l’obiettivo centrale è quello di formare persone capaci di pensiero autonomo e critico. È necessario che la scuola non educhi solo alle best practice, ma educhi all’errore, non alla pigrizia e alla sciatteria, ma al pensiero critico, autonomo, solo così spingeremo i giovani all’innovazione. Bisogna preparare al lavoro, non solo fornire una formazione specialistica; creare le condizioni per un futuro di formazione continua.

Un presupposto indispensabile è capire che dobbiamo ridare valore sociale alla figura dell’insegnante, partendo dalla selezione e dalla motivazione: non possiamo tenere al margine della società chi ha la responsabilità di formare i futuri cittadini, i professionisti di domani. E non è solo un problema di trattamento economico.

Prima di tutto la libertà di scelta educativa. Questa si consegue solo se le famiglie dispongono, sulla base di costi standard, di una quota da destinare alla formazione dei figli, che rende liberi di scegliere equiparando i diversi tipi di scuola, con lo Stato che assume la funzione di garante del sistema, come già avviene in altre nazioni. Per innalzare il livello è indispensabile che le scuole siano libere di scegliere e di retribuire i docenti sulla base delle loro capacità, facendo competere pubblico e privato, personale direttivo e docente, valutando i risultati e premiando i migliori.

Poi la formazione permanente. Anche in questo ambito siamo agli ultimi posti nelle classifiche dei paesi occidentali. Il cambiamento nel mondo del lavoro è sempre più frenetico nei tempi e profondo nelle tematiche. Certamente alcuni approcci sono mode, meteore costruite più per il business dei formatori che per reali capacità di risolvere problemi nuovi o in modo nuovo, tuttavia disponiamo di nuovi strumenti di analisi, di nuove tecnologie, di nuovi approcci e metodologie. È un mondo che richiede capacità critiche per comprendere e capacità tecniche per utilizzare vantaggiosamente. La scuola e le agenzie formative di qualsiasi tipo devono preparare al cambiamento continuo, che è soprattutto un fatto culturale, e affiancare nel conseguire le competenze necessarie. A volte avremo bisogno di una formazione approfondita su un tema specifico, altre dovremo imparare a leggere cambiamenti di paradigma o di scenario, altre ancora dovremo studiare sulla base dei problemi da affrontare. Già oggi non è più come prima: prima si studia e poi si comincia a lavorare.

Una considerazione, infine: cambiare la scuola vuol dire cambiare la società, ma come riusciremo a cambiare la scuola se non cambia la società?

Conte è figlio della USP


5302898_1717_casalino_1_Solo lo stato di emergenza tiene in piedi questo improbabile governo.

Altro che storytelling e balle varie che oggi vanno tanto di moda. Le vecchie tecniche di comunicazione funzionano sempre, eccome se funzionano. Chiedetelo al duo Casalino-Conte!

Quando nel 1940 Rosser Reeves, che avrebbe poi curato la campagna per le presidenziali di Eisenhower nel 1952, teorizzò il modello di funzionamento della pubblicità che chiamò Unique Selling Proposition (USP), non avrebbe mai immaginato che ottant’anni dopo sarebbe stato utilizzato con grande successo da qualcuno per governare una nazione: l’Italia.

Come spesso succede le mode cambiano, nel marketing in particolare: dagli oceani blu al design thinking. Sistematicamente qualcuno si inventa e promuove un metodo garantito per vendere, trovare nuovi clienti, convincere, insomma per fare soldi.

Una cosa è certa: se è bravo a vendersi prima di tutto i soldi li fa sicuramente lui. Certo ha bisogno del supporto dell’Accademia, quella con la A maiuscola, di qualche articolo su prestigiose riviste scientifiche e magari di altri autori che vantino i prodigiosi risultati che si possono ottenere adottando quel metodo, ma non è così difficile se hai le conoscenze giuste.

Spesso si tratta di idee che magari funzionano anche, ma gli autori si dimenticano sempre di dirti due cose importanti: che non possono funzionare ogni volta e che il risultato non dipende da cosa fai, ma da come lo fai.

Con i vecchi metodi, basati su poche regole da seguire, il risultato eccellente ugualmente non è certo, ma qualche effetto si ottiene sempre.

Per non parlare in astratto facciamo un esempio. Lo storytelling. Il principio su cui si fonda è il fatto che da sempre nella nostra cultura occidentale, le storie si ricordano più facilmente delle affermazioni. È come se fosse una caratteristica del nostro cervello. Tutto il sapere, per migliaia di anni, si è costruito infatti attraverso la narrazione di storie: dalla Bibbia, all’Iliade fino ai grandi romanzi dell’Ottocento; attraverso queste storie si è creata la civiltà occidentale: i suoi valori, il costume, le tradizioni e così via. Insomma, la narrazione è probabilmente un sistema di comunicazione molto efficace.
Pensiamoci un attimo: secondo voi è la stessa cosa se una storia la scrive, che so, Hemingway oppure se la scrivo io? Come diavolo potete pensare che un qualsiasi copywriter riesca a scrivere, almeno qualche volta, storie che funzionino al punto da investirci soldi e legare il successo commerciale a quella storia?
Probabilmente funziona solo se il budget di comunicazione è molto alto. Come sempre.

L’USP si basa su tre semplici regole:
1.     Proporre un beneficio per il consumatore
2.     Questo beneficio non possa essere garantito da altri
3.     Il beneficio deve essere così vantaggioso che spinga milioni di consumatori all’acquisto.

Perché Conte è figlio della USP
Con il Corona virus gli italiani, atterriti dalle immagini delle televisioni e dai numeri del bollettino di guerra quotidiano; incapaci di spiegarsi le contrastanti opinioni degli esperti; preoccupati dalla mancanza di soldi, oppure reclusi in spazi dormitorio, hanno dovuto accettare una situazione mai vissuta prima in cui “l’uomo solo al comando” dettava le condizioni del vivere quotidiano, formalmente supportato da task-force, esperti, commissari.
Ogni giorno venivano annunciati proclami che, letti a distanza da quei momenti, oggi sembrano una commedia recitata da un attore mediocre, di fronte a spettatori che vivevano una tragedia.
Ed il messaggio era uno solo e sempre lo stesso: la paura.

Conte è passato senza arrossire o perdere l’aplomb della sua curata pettinatura dall’essere alleato di Salvini a diventare il suo più aspro nemico. La cronaca quotidiana ci mostra che i partiti che sostengono il governo non sono d’accordo su nulla ed ogni giorno litigano su qualcosa: ogni provvedimento è annunciato, rettificato, ritardato, modificato, sempre al di fuori di una normale dialettica democratica. Né dobbiamo dimenticare che i roboanti proclami, gli annunci tronfi e l’utilizzo di bazooka vantati, sono stati solo pessima retorica in un momento in cui avevamo (ed abbiamo) bisogno di fatti.
Il governo non ha in numeri nel paese, ma grazie alla democrazia parlamentare, potrebbe durare fino alle prossime elezioni: Conte ed i partiti che lo sostengono hanno bisogno dello stato di emergenza. È stato impudicamente aiutato dal Covid 19, o meglio dalla paura del Covid. Sta in piedi solo se questa paura continua ad agire sugli italiani: se li domina, li sottomette.
E stando in piedi, sopravvivendo nonostante tutte le sue criticità, nonostante il fatto che non rappresenti la maggioranza degli elettori, garantisce un beneficio a diversi gruppi di “consumatori”, proprio come prevedono le regole della USP.

Prima di tutto il beneficio.
Per i parlamentari della sua maggioranza è chiaro: finire la legislatura con tutti i vantaggi che ne conseguono.
Per l’Unione Europea la continuazione del governo Conte è una benedizione: un capitan Fracassa in fondo non fa molta paura. Finché il governo è nelle sue mani non ci sono rischi di derive audaci e magari tengono più facilmente sotto controllo una delle economie più grandi d’Europa.
Ma serve la promessa di un importante beneficio per gli italiani, per avere abbastanza consenso. Quale beneficio è così sentito, forte, capace di coinvolgere come la sicurezza per la propria salute? E più sei capace di seminare paura, più la promessa di sconfiggere il nemico diventa potente.

Qual è la situazione oggi?
Nonostante da più parti gli esperti affermino che l’emergenza sanitaria è finita o è sotto controllo e che abbiamo imparato come gestire eventuali nuovi focolai, Conte afferma con il suo solito piglio che il coronavirus “è ancora una sfida insidiosa”.
Oggi stiamo vivendo un’emergenza economica gravissima che riguarda le piccole aziende, le partite IVA, i lavoratori autonomi. Interi settori sono al collasso e anche i dipendenti che non hanno ancora visto la cassa integrazione sono preoccupati e non poco.
E molti annunciano un autunno difficilissimo.
Ma l’ombrello della proroga dello stato di emergenza fino a fine dicembre serve per poter prendere decisioni immediate, anche in deroga a ogni disposizione vigente. Garantisce la vita del governo. È una beffa al parlamento ed agli italiani.

È indispensabile però supportare la USP: la comunicazione sulla situazione del Covid in Italia continua ad essere negativa, allarmistica e catastrofista. Molti media continuano a stressare l’idea che ci sono ancora troppi focolai, che troppi non seguano le regole e che l’epidemia in molte regioni (la Lombardia ovviamente è il primo imputato) non sia adeguatamente controllata.
Lo stato di emergenza è un’arma potentissima che garantisce il prosieguo del governo. Il supporto a questa richiesta è il timore alimentato da piccoli focolai, nella maggior parte dei casi dovuti a persone che vengono dall’estero e non sono controllate adeguatamente.

Bisogna alimentare la paura, ma bisogna avere comunque una qualche forma di consenso e allora l’ipotesi di proroga dello smart working per i dipendenti pubblici, tanto che gli cambia alla maggior parte di loro e sono tanti, felici di lavorare da casa? I roboanti e fanfaroneschi proclami di miliardi in arrivo per grazia di qualche santo europeo per gli altri.

Più forte sarà il messaggio legato alla paura di tornare alla chiusura dell’Italia, maggiore sarà il numero di quanti accettano lo stato di emergenza come la soluzione ai problemi. Più forte sarà condizionamento collettivo più sarà improbabile che venga in mente alle persone l’idea di scendere in piazza.

Una unica selling proposition: la paura del Covid 19 ha tenuto in piedi questo improbabile governo e forse purtroppo gli consentirà di arrivare a fine legislatura evitando il confronto con la realtà del paese: il voto politico.

FIDUCIA.


fiducia

Quando nel 1933 Franklin Delano Roosevelt, in occasione del suo insediamento alla Casa Bianca, cominciò a parlare dalla radio agli americani con i “Discorsi del Caminetto”, la Grande Depressione stava colpendo in maniera drammatica e inaspettata l’economia americana.

Non parlava dietro una scrivania, anche se nessuno lo poteva vedere, ma chiacchierava con i cittadini americani utilizzando un approccio ed un tono di voce più da conversazione che da proclama.

Roosevelt probabilmente non voleva soltanto che i suoi connazionali avessero fiducia nella sua capacità di risolvere i problemi della Grande Depressione, ma voleva creare un clima di fiducia negli americani in merito alla possibilità concreta di uscire dalla terribile situazione che stavano vivendo.

Tutto è cambiato. Oggi una persona che conversa con gli amici davanti ad un caminetto è probabilmente un vecchio noioso: non c’è polemica, nessuno alza la voce, non c’è il parlarsi sopra. Le uniche notizie oggi sono le cattive notizie, quelle forti e strillate, non quelle dette ed argomentate e più è strillata, più è importante. Le brutte notizie, si sa, vanno a ruba. Da quando la comunicazione passa attraverso il video, ed ancora più con i pervasivi social, bisogna attaccare qualcuno per fare audience, per esistere sui media. Non è vero solo nel discorso politico, ma un po’ in tutti gli ambiti (dai medici che ci parlano di pandemie, agli economisti che ci indicano la strada per risolvere i problemi della disoccupazione o del debito pubblico): oggi bisogna usare un linguaggio forte, spararle grosse.

Certo sono cambiati i media, ed ognuno di essi ha il suo specifico, ma se prima il media determinava il messaggio: “l’ho sentito al telegiornale” si diceva quando io ero giovane per dire che qualcosa era vero, oggi, anche per la quantità di comunicazione che ingeriamo ogni giorno, abbiamo bisogno di messaggi aggressivi, che urlino per attirare la nostra attenzione.

Il come si dice prende il sopravvento sul che cosa si dice.

Con i social gli slogan vendono di più di un progetto, e chi sa più distinguerli?

Perché Roosevelt aveva scelto la formula dei “Discorsi del Caminetto”? l’obiettivo era quello di creare fiducia: era necessario che gli americani avessero fiducia nel loro presidente e nella possibilità di risolvere la Grande Depressione.

 Che cosa è la fiducia? Secondo il vocabolario Treccani è un atteggiamento verso altri che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità.

Se dovessi indicare quali sono gli ingredienti fondamentali in ogni relazione umana certamente metterei al primo posto la fiducia, seguita poi dall’interesse. Acquisto un prodotto perché ho fiducia nel venditore o nella marca; nelle relazioni di amore, di amicizia o d’affari è il fondamento indispensabile, non c’è ambito che possa stare in piedi senza la fiducia. Che cosa è in fondo la burocrazia se non quel coacervo di regole, postille e incasinamenti che dimostra non solo la sfiducia verso i cittadini, ma anche verso lo stesso dipendente della Pubblica Amministrazione, che da noi non è il civil servant come dovrebbe, ma, appunto, il burocrate. E così per controllarne pochi si penalizzano tutti.

Quindi per dare fiducia bisogna valutare fatti, circostanze e relazioni, questi sono gli elementi che inducono ad avere un’aspettativa positiva nei confronti di qualcuno. Parliamo di una fiducia educata, figlia di conoscenza dei fatti e delle situazioni, non di un tifo da stadio o di una fiducia a priori. Una fiducia che attribuisce la delega a prendere decisioni nell’interesse di tutti, a fare fatti, che conferisce un sostanziale potere a qualcuno, che si tratti di un politico, un consulente, un esperto.

Mai come negli ultimi anni abbiamo assistito a due fenomeni contemporanei: da una parte il dirompere dell’antipolitica e dall’altra l’esaltazione dei tecnici.  Per una serie di ragioni diverse la classe dirigente, in particolare quella politica, ha visto ridursi in maniera profonda il capitale di fiducia di cui godeva e contemporaneamente è cresciuta a dismisura tra le persone la fiducia nella tecnica, al punto che spesso la chiamiamo scienza.

Certo la classe politica oggi è diversa, per decenni è stata figlia di una lunga selezione della specie, adesso appena eletto puoi trovarti a governare, eppure la complessità del contesto nel quale viviamo richiederebbe una più accurata selezione. Il merito e l’esperienza non contano più; conta il consenso misurato con i like. Siamo così arrivati alla mostruosità di “uno vale uno”, del dilettantismo eretto a merito. No. Sono le persone che fanno la differenza, sempre!

Per quanto riguarda la tecnica questa non è più solo lo strumento di cui disponiamo per risolvere problemi funzionali, è il mondo intero che ne è impregnato fino a farla diventare un fine, un valore, ma la tecnica in realtà ha solo la funzione di funzionare, non deve raccontarci nulla, non deve sostituire il pensiero, la visione o la capacità di scelta. Quindi puoi trovarti a governare o a determinare i comportamenti e le scelte dei politici perché sei un tecnico.

Oggi in Italia non abbiamo più fiducia nei politici, negli scienziati, negli economisti, nei giornalisti, nei magistrati e così via. Anche se certamente ci sono ancora politici, scienziati, economisti, giornalisti e magistrati seri.

Abbiamo bisogno di rimettere in ordine le cose. Non possiamo lasciare al virologo, all’economista lo spazio delle decisioni. Dobbiamo ritrovare il primato della politica poiché governare non è solo amministrare, ma è anche creare il futuro.

E noi abbiamo bisogno di ricostruire tutto. Non ci servono né politici dilettanti e improvvisati né tecnici infallibili e onniscienti. Abbiamo bisogno di gente seria per fare seriamente politica.

Costruire un rapporto di fiducia richiede la capacità di mantenere le promesse e di realizzare progetti. Si costruisce con il tempo e con i comportamenti, non con l’eleganza dell’abbigliamento, con il parlare forbito o con i titoli accademici.

Abbiamo bisogno di qualcuno che non costruisca il consenso su vuote promesse, su slogan o proclami, ma che ci parli delle cose che ha fatto e che sta facendo (non che farà) per risolvere i problemi: di persone che si assumano con coscienza la responsabilità di governare e che abbiano esperienza. Qualcuno che ci parli come se fosse “seduto in poltrona davanti ad un caminetto” e dica onestamente, senza vanterie, che cosa è possibile fare, che cosa si sente di fare, perché lo ritiene giusto, quali circostanze sono avverse e quali favorevoli.

L’Italia per non morire e per superare quella situazione strutturale che ha bloccato la crescita da almeno vent’anni ha bisogno di qualcuno che sia in grado di sottoscrivere con i cittadini un nuovo accordo basato sulla reciproca fiducia e su questa rimetta in discussione la sottocultura burocratica che ci strozza per i costi che genera e per le inutili complicazioni, e perciò sia in grado davvero di punire chi trasgredisce. Qualcuno che sappia attivare quel processo sociale ed economico complesso che faccia ripartire i territori, le imprese, il turismo.

I bonus per riaprire o i sussidi sono condizione necessaria, ma senza fiducia non usciremo da casa, non riattiveremo l’economia, non faremo tornare il turismo, non costruiremo un’alternativa ai ricordi di un lontano, splendido passato.

Forse ci manca il coraggio di scegliere un nuovo Roosevelt, oppure, purtroppo, semplicemente non ce l’abbiamo.

Perché non dobbiamo lasciare l’Italia in mano agli scienziati.


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L’Italia rischia di affondare: per rilanciare l’Italia e progettare il nostro futuro non dobbiamo lasciare le scelte in mano agli scienziati o ai tecnici.  Torniamo alla politica.

 

La medicina ha fatto una gran brutta figura in questo periodo di Covid19.

Dagli scienziati ne abbiamo sentite di tutti i colori in questi difficili mesi: “le mascherine non servono; le mascherine sono essenziali; il virus si estingue con il caldo; il virus continuerà a girare; si ripresenterà in autunno; ha perso la sua forza; è clinicamente estinto; si può risolvere il problema con….; bisogna aspettare il vaccino; l’OMS dice che….; il professor tale sostiene che…”. Insomma pareri opposti, polemiche anche aspre fra gli addetti ai lavori, ricette discordi e noi impauriti, confusi chiusi in casa a chiederci come mai oggi, nel 2020, non fosse possibile trovare una soluzione diversa da quelle che venivano suggerite nel corso delle pestilenze o della spagnola, con tanti esperti in tutto il mondo coinvolti.

Che siano virologi, infettivologi, economisti o studiosi della politica, di una cosa sono certo: considerandoli “scienziati” attribuiamo loro delle capacità ed un potere che per la natura stessa della loro disciplina non possono avere.

È già successo, più di una volta: quando la regina Elisabetta d’Inghilterra, dopo la crisi del 2008, andò in visita alla prestigiosa London School of Economics, fece al rettore una domanda che tutti ci siamo fatti nella nostra testa: perché nessuno ha previsto il disastro?

Già, perché gli scienziati non riescono a prevedere i disastri?

La parola è la più potente di ogni arma, pare che dicesse l’egiziano Ptahhotep circa 5.000 anni fa, e noi abusando della parola scienza, utilizzandola in maniera indiscriminata, ne abbiamo modificato e diluito il senso. Gran parte del problema infatti nasce, ne sono sempre più convinto, dalla ambiguità del termine scienza.

A proposito: scienza o scienze?

Siamo portati a definire scienza qualsiasi disciplina studiata nelle università, attribuendo a queste la stessa affidabilità delle scienze sperimentali. Ma le scienze non sono tutte uguali in termini di affidabilità, contenuto di verità e soprattutto per quanto riguarda le conseguenze sulla vita quotidiana delle persone. Li chiamiamo scienziati, ma spesso sono solo esperti. Ed ancora una volta il linguaggio non aiuta: in questi giorni ho sentito i giornalisti chiamarli scienziati, e loro stessi, parlando del loro lavoro, dire che “attraverso una ricerca scientifica abbiamo dimostrato, verificato, provato…”. Certo queste discipline accademiche hanno un metodo, autorevoli pubblicazioni, un sistema di relazioni e di verifiche tra studiosi, ma basta questo per definirle scienze?

Quando definiamo scienza una disciplina, nella nostra mente, per il retaggio di cultura scolastica tradizionale, le attribuiamo tre caratteristiche che derivano da una visione deterministica e galileiana:

  1. la scienza è conoscenza (cioè è in grado di spiegare di un fenomeno perché avviene, come avviene, che cosa in realtà succede)
  2. la scienza è capace di fare previsioni (quando qualcosa si verificherà, in quali forme, chi ne avrà vantaggio o svantaggio)
  3. la scienza può trovare soluzioni ai problemi.

Non è più così per nessuna disciplina scientifica.

Senza voler entrare in problemi di filosofia della scienza, semplificando, esiste una distinzione precisa tra scienze dure (hard science) come la fisica, la chimica e in gran parte anche la biologia e scienze molli (soft science) o, a me piace di più chiamarle scienze sociali o umane, come la sociologia, l’economia, la medicina. Nelle prime le situazioni sono replicabili, cioè in laboratorio o in natura posso ripetere un fenomeno che sto osservando quante volte voglio, posso definirne le caratteristiche attraverso il linguaggio matematico e posso verificare come, dati alcuni presupposti, da questi derivino sempre alcune conseguenze.

Nelle scienze umane i fenomeni che si osservano non possono essere replicati, non vi sono laboratori possibili, né è mai possibile ricreare le stesse condizioni.

Non è l’utilizzo della matematica o della statistica che garantisce per il risultato, ma è la falsificabilità. Secondo Karl Popper, uno dei più importanti epistemologi contemporanei, “Una teoria è scientifica nella misura in cui può essere smentita“, probabilmente ispirato da una frase di Einstein contenuta in una lettera del 1926 a Max Born, «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato».

In realtà da una parte il problema è nostro: abbiamo attribuito alla medicina, alla sociologia ed all’economia la stessa fiducia che attribuiamo alle scienze sperimentali, ma, pure se imbottite di cifre e di statistiche, anche se nutrite da ruminatori di numeri e da modelli matematici, non sono certamente scienze in quel senso. Dall’altra dipende dal linguaggio stesso di queste discipline che parlano di teorie, quando dovrebbero parlare di ipotesi e così via.

In pratica dovremmo attribuire ad ogni disciplina un gradiente di “affidabilità” che segue i principi di replicabilità e falsificabilità e procede per livelli diversi dalla fisica verso la psicoanalisi che Popper, che aveva lavorato a lungo con Adler, considera una pseudoscienza.

Ogni scienza genera una tecnica…e qui cominciano i problemi

Anche se non sono tutti d’accordo, io sono convinto che la medicina, l’economia o la sociologia abbiano contribuito, anche se in modo diverso (anche facendo danni diversi), alla nostra possibilità di vivere meglio. Dico solo che quelle che noi chiamiamo genericamente scienze non sono tutte uguali in termini di affidabilità, contenuto di verità e, quando diventano tecnologie, non sono tutte uguali per quanto riguarda le conseguenze sulla vita quotidiana delle persone.

Il progresso che attribuiamo alle scienze, infatti deriva dalle applicazioni delle scienze stesse: tecnologie o ingegnerie.  Se considero scienza qualsiasi disciplina accademica ed attribuisco a questa il portato di affidabilità delle scienze sperimentali, forse danni ne faccio pochi. Se per esempio la teoria della relatività di Einstein non fosse vera, avremmo qualche gadget tecnologico in meno, peccato, ma non avremmo un vero e proprio danno e nel complesso riusciremmo a cavarcela.

Se invece una teoria virologica o economica (bisognerebbe chiamarle ipotesi, non teorie) è sbagliata e ne facciamo derivare leggi, norme, protocolli clinici o scelte di ingegneria sociale, potremmo fare macelleria sociale e la vita delle persone ne risentirebbe profondamente.

Insomma le scienze umane non fanno male finché non me le applicano addosso, poi qualche rischio c’è. Quanti danni sono stati fatti alle persone da una visione accademica presuntuosa e infondata? Quante persone e famiglie hanno sofferto e sono state private di diritti che la società aveva garantito loro come conseguenza di tante conquiste sociali? La situazione Covid 19 che stiamo ancora vivendo e l’esperienza della Grecia sono emblematiche.

Una politica succube degli scienziati e dei tecnici può distruggere la società.

Secondo Kuhn (uno dei più importanti studiosi contemporanei di filosofia della scienza), le scienze dure sono orientate in ogni periodo storico da una specifica visione del mondo che indirizza l’attività degli scienziati selezionando i problemi di cui interessarsi, i fenomeni da osservare ed i metodi di ricerca da utilizzare e le ricerche da finanziare.

A maggior ragione le scienze umane non possono essere neutrali anche per la loro stessa natura. Si tratta infatti di punti vista, interpretazioni che generano ipotesi e seguono spesso tendenze o mode diffuse tra gli scienziati sociali. La scienza infatti non è mai qualcosa di astratto e separato dalla realtà nella quale viviamo. E tutto ciò aumenta il grado di indeterminatezza di queste scienze.

È importante quindi che, sia gli scienziati sociali che noi, abbiamo una maggiore consapevolezza rispetto al loro essere scienze, poiché la loro natura è legata alle persone ed alla società.

La politica non può e non deve trovare alibi o giustificazioni per le sue scelte mancate dietro a esperti, task force, Stati Generali; tutto ciò aumenta solo la confusione.

I soldi che arriveranno, da qualunque fonte, che sia l’Europa o l’emissione di titoli, non vanno spesi in prebende sussidi e mance, elettorali o demagogiche.

Come utilizzarli per risolvere davvero i problemi ormai è chiaro: pubblica amministrazione costosa, farraginosa e inefficiente; leggi di difficile attuazione, incomprensibili alla maggior parte delle persone; enti pubblici che non riescono a produrre progetti e gestire appalti; magistratura autoreferenziale con una giustizia civile e penale lunga, che non garantisce più la certezza del diritto e della pena;  sistema fiscale che ci obbliga sempre a ricorrere a commercialisti, patronati, Caf per riuscire a fare qualsiasi cosa; stato sociale sempre più debole; investimenti in scuola, ricerca e sviluppo e innovazione ridotti a pochi spiccioli a causa degli incredibili sprechi della macchina burocratica; parlamento ridotto ad mero ornamento, esautorato dai suoi compiti.

Non è un problema di soldi: è un problema di mentalità e di organizzazione. Ogni volta che chiediamo ad esperti, task force o ricorriamo a qualsiasi altra diavoleria, stiamo solo perdendo tempo.

Diciamocelo finalmente ed una volta per tutte, togliamoci gli alibi: la politica non è ascoltare, è rispondere ai problemi con soluzioni efficaci.

Che cosa hanno in comune Churchill, Montanelli, Gandhi e Cristoforo Colombo?


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L’odio del politically correct, il “gretismo” intransigente e gli ideologi della globalizzazione indiscriminata, forti di una presunta superiorità morale, vogliono cancellare la storia. Perché?

Non c’è alcuna giustificazione al comportamento del poliziotto bianco che ha soffocato George Floyd, a Minneapolis. Ma non c’è nemmeno giustificazione alla furia iconoclasta che in tutto il mondo cerca di cancellare la storia cancellandone la memoria.

È davvero solo un sentimento antirazzista che muove le persone di tutto il mondo occidentale a manifestare violentemente distruggendo o insudiciando statue di certi uomini o c’è qualcosa d’altro? Chi sono? Che cosa vogliono? Da dove hanno origine i loro sentimenti ed i comportamenti? Certo in questo caso tutto nasce dagli afroamericani, direttamente interessati, come è comprensibile, da quella triste vicenda, anche se vorrei ricordare che i tanto vituperati Stati Uniti sono stati l’unico paese occidentale finora ad aver eletto come presidente Barack Hussein Obama II. Perché Nancy Pelosi, Speaker della Camera dei rappresentanti, ha scritto in una sua lettera al Senato:” The statues which fill the halls of Congress should reflect our highest ideals as Americans. Today, I am once again calling for the removal from the U.S. Capitol of the 11 statues representing Confederate soldiers and officials. These statues pay homage to hate, not heritage”[1]. Ma che c’entra l’Italia in tutto ciò?

Come nasce questa convergenza tra diseredati e gruppi di intellettuali, spesso benestanti, che ha interessato solo le due rive dell’oceano? Perché nessuno ha protestato con la stessa forza per quello che avviene in alcuni Paesi Arabi (con i quali continuiamo a fare lauti affari) o con la Cina che abbiamo arricchito eleggendola troppo facilmente a fabbrica del mondo?

Ho cercato di capire e voglio proporre le mie riflessioni.

Abbattere le statue non è certo una prassi nuova: ogni volta che una qualche parte religiosa, politica o sociale vuole sovvertire il contesto, sembra quasi che “il popolo”, abbattendo monumenti che raccontano il passato storico, si svegli dal letargo e, distruggendo i segni della memoria, possa realizzare il cambiamento.

È avvenuto con la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione culturale in Cina, i Khmer rossi in Cambogia fino alla follia dei Talebani che portò a distruggere le gigantesche statue del Budda, vecchie di più di 1500 anni nella valle di Bamyian.

Insomma distruggere monumenti, che sono simboli (a volte anche brutti e poveri di valore artistico), vorrebbe essere un processo alla storia, per cancellarla con un comportamento fanatico che a me ricorda i militanti di Al Qaida e dell’Isis. Non è certamente così che si risarciscono le vittime del colonialismo o delle altre ingiustizie che hanno caratterizzato la nostra società. Né è così che si costruisce un mondo nuovo.

La storia va studiata, approfondita, letta rispetto ai contesti, certo è meno divertente e più faticoso che manifestare! Solo la conoscenza e l’istruzione ci daranno gli strumenti per superare per cambiare la società, specie se si pretende di avere obiettivi nobili.

A che cosa ci porta distruggere monumenti o cancellare film per nascondere elementi della nostra civiltà? Cercare di cancellare la storia, ciò che di buono o di cattivo è stato, non solo non vuol dire non risolvere i problemi.

Vuol dire rinunciare alla nostra identità ed alla nostra cultura.

Questo atteggiamento mi sa molto più di censura che di rifondazione sociale.

 E se, non dico il fine voluto, ma per lo meno la conseguenza di questa furia iconoclasta, fosse proprio questo? Cancellare le diverse identità e la ricchezza delle culture?

Che mondo sarebbe oggi senza Churchill (forse l’artefice principale della sconfitta nazista), Gandhi (l’uomo che ha lottato pacificamente per l’indipendenza dell’India) o Cristoforo Colombo che per caso ha scoperto l’America, simbolo del coraggio e della curiosità dell’uomo? Che senso ha che il sindaco di Londra, Khan, annunci la revisione totale dei monumenti della città.

Secondo me una spiegazione c’è: le radici di questi comportamenti sono legate alla cultura del politically correct, al “gretismo” e alla globalizzazioone forsennata. Queste tre religioni hanno in comune la presunta superiorità morale che contraddistingue i loro adepti.

Il politically correct ha origine negli Stati Uniti, negli ambienti della sinistra, negli anni Ottanta. Questo orientamento ideologico vuole che il linguaggio non manifesti pregiudizi di alcun genere nei confronti delle persone. In alcune Università americane sono stati redatti i cosiddetti speech codes proprio per definire il linguaggio più appropriato. Anche in Italia questa onda ha colpito: in caso di guerra parliamo di “danni collaterali” invece che strage di civili, diciamo “guerra preventiva”, il nemico è stato “neutralizzato”, invece che ucciso. O ancora “non vedente”, “diversamente abile”, “paesi in via di sviluppo” (sottosviluppati), i poveri sono diventati “non abbienti”, fino alle mostruosità legate al genere come la sindaca, l’ingegnera (peccato che non possiamo dire il dentisto) o ai lavori, che hanno trasformato lo spazzino in operatore ecologico. La lista è lunga. Ma il linguaggio genera la forma del pensiero. Censurare alcune espressioni, usate spesso senza alcun intento denigratorio, è semplicemente censurare.

In realtà questi ideali egualitari si sono trasformati, per l’intransigenza, in conformismo e tirannia ideologica: per rivendicare la giustizia sociale si è creata una pericolosissima ipocrisia istituzionale.

La seconda componente è “il gretismo” una forma di rovinoso e irragionevole fanatismo ecologico che tende a modificare radicalmente i processi di produzione e di consumo della nostra società.

Che sia necessario ricercare un rapporto più equilibrato tra uomo e ambiente ha senso. Che vi sia una scadenza al farlo, pena la distruzione della natura, non pare una istanza dimostrabile e realistica.

Né è accettabile che questo eco-moralismo ci spinga a vivere come nei paesi poveri per cui Greta Thunberg non dovrà utilizzare un ipertecnologico panfilo dei Casiraghi per andare a New York, ma utilizzerà canoe tradizionali o barche a vela (attenzione ad utilizzare solo legname da foreste certificate).

È praticamente impossibile far accettare le politiche sostenibili ai paesi poveri, che oggi producono la maggiore quantità di emissioni, perché ciò ne ritarderebbe lo sviluppo. Anche ai governi occidentali, al di la delle dichiarazioni di principio, è sempre più chiara l’insostenibilità degli obiettivi. I tempi per conseguire il cambiamento di paradigma energetico sono molto lunghi, ma questo percorso incide in maniera profonda sulla vita di miliardi di persone, è assurdo per la parte più disagiata della popolazione che sarebbe obbligata ad un cambiamento profondo dei comportamenti quotidiani.

Una sola cosa è certa: le politiche climatiche o porteranno ad un nuovo paradigma che richiede enormi investimenti, e quindi avvantaggerà solo chi dispone del capitale. Oppure genereranno una drammatica bolla di decrescita che ancora una volta peserà sulle spalle della parte più povera della popolazione. Ancora una volta così aumenterà il divario tra ricchi e poveri.

Realismo e sostenibilità economica e sociale spingono verso un utilizzo più intelligente delle tecnologie per abbattere le emissioni.

La globalizzazione forsennata secondo me è il terzo elemento.

Se leggiamo in modo realistico il risultato di alcuni decenni di globalizzazione sulle persone possiamo considerare che questa ha prodotto solo tre frutti: maggiore precarietà, perdita dell’identità storica e consumo di massa. Ben poco di buono francamente.

Se pensiamo agli attori della globalizzazione questa ha giovato alla finanza che, grazie alla smaterializzazione dei capitali, alla necessità di copertura dei deficit degli stati ed al bassissimo livello di regolamentazione ha accresciuto a dismisura il suo potere ed i suoi profitti. Ha anche giovato ai grandi gruppi imprenditoriali, strettamente legati ai gruppi finanziari, che agiscono al di la dei confini nazionali, spesso operando contro gli interessi degli stati stessi (un buon esempio sono le politiche fiscali praticate da questi).

Se l’ideologia del libero scambio era che il benessere deriva dal fatto che ogni paese si specializza in alcune produzioni per cui è più vocato oppure ha capacità di creare un solido vantaggio, in condizioni di perfetta concorrenza, tutto ciò è molto lontano dall’essersi realizzato.

La guerra economica è la nuova guerra fredda e forse sta producendo maggiori danni.

La globalizzazione crea uno stile di vita e di consumo massificato, ha bisogno del collante di una ideologia che si basi sul fatto che tutte le popolazioni aderiscano alla sua proposta culturale. Ha bisogno di cancellare le specificità culturali, di cancellare la memoria storica e per farlo colpisce valori, e simboli che la rappresentano. 

Aderire a questa furia iconoclasta o non combatterla; credere che la società si modifichi cambiando i nomi alle strade o togliendo le statue; pretendere di rileggere la storia senza capirne la natura profonda attraverso la quale si sono formate le diverse culture; agire dietro lo scudo di una presunta superiorità morale è semplicemente figlio di ignoranza e stupidità.

Toccare Montanelli o Pasolini, le statue o le targhe stradali che li ricordano, il cui privato pure per motivi opposti, ad alcuni può sembrare deprecabile, significa cercare di cancellare la storia, di distruggere una identità culturale profonda, di cui io sono orgoglioso. E voi?

[1] “Le statue all’ingresso del Campidoglio dovrebbero rappresentare i più alti ideali degli americani. Una volta ancora chiedo che siano rimosse le 11 statue che rappresentano soldati e ufficiali confederati. Le loro statue sono un tributo all’odio, non alla nostra storia.”

 

Stati Generali, task-force, esperti: l’alibi dell’ascolto


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La politica è ascolto è un luogo comune erroneo e pericoloso che da almeno vent’anni ricorre in tutte le salse. No, caro eletto, se sei lì, al parlamento o al consiglio di quartiere, è perché io cittadino mi aspetto da te soluzioni.

Il lavoro del politico non è l’ascolto, semmai questo può essere un mezzo, a volte un mezzuccio per giustificare la tua insipienza (ormai spesso sei diventato solo una mano che si alza a comando). Il tuo lavoro, caro politico è trovare soluzioni efficaci ai problemi, è per questo che ti abbiamo eletto.

Da dove nasce questa idea che la politica si faccia con l’ascolto e che è diventata un vero strumento di “distrazione di massa”? Ho provato a fare una breve lista.

  1. Gli anni della concertazione. Tutto comincia secondo me nel 1993 (al governo c’era Ciampi), quando l’accordo tra governo di centro sinistra e sindacati consentì di affrontare con successo il problema dell’inflazione.

Oggi questo sistema è entrato in crisi perché i corpi intermedi, i sindacati in primis, hanno assunto un atteggiamento solo corporativo, perdendo di vista l’interesse generale; la politica cerca più il consenso che la responsabilità delle decisioni e infine la società non è più basata sull’operaio ed il padrone. Quello che ci portiamo dietro è l’idea che la pratica politica passi attraverso l’incontrare persone. Oggi non è nemmeno più negoziazione come nel 1993, spesso è incontro fine a se stesso.

  1. Il profilo di chi fa politica è cambiato, anche in maniera profonda. Prima si arrivava ad una carica elettiva dopo un lungo processo di selezione e formazione, che si trattasse delle associazioni giovanili, dei sindacati, dei partiti non ti trovavi dall’oggi al domani proiettato in una posizione senza aver percorso una strada, a volte anche lunga. Questo processo garantiva che chi aveva deleghe di rappresentanza politica fosse espressione degli interessi di un territorio o di una categoria, quindi conoscesse i problemi. Vi era poi un raccordo, che forse oggi manca completamente, tra i vari livelli di rappresentanza: dai consigli di quartiere al governo, che garantiva il flusso delle informazioni su problemi e situazioni particolari.
  2. Il centralismo. Con l’idea di superare i problemi abbiamo accentrato le decisioni. Il decentramento locale non è stato mai messo davvero in atto, per quanto previsto dalla Costituzione più bella del mondo. L’Italia è lunga, con problemi e caratteristiche diverse anche nella stessa regione, il centralismo ha reso impossibile leggere lo specifico dei territori.

Consideriamo ad esempio le scelte di politica industriale: queste nascono da territori, settori, filiere produttive che vanno lette ed interpretate. La politica industriale al contrario, resa centralistica, è diventata solo gestione della finanza pubblica con le leggi finanziarie. Il resto è solo inutile dettaglio che distrae soldi e toglie al governo lo spazio per seguire i suoi interessi.

  1. La politica mediatizzata con social e tweet ha poi portato ad utilizzare questi strumenti per mostrare di essere attivi, per comunicare, quasi che un politico sia diventato alla stregua di un influencer, pagato in base ai follower ed ai like. I voti però sono un’altra cosa.

Davvero non sappiamo di che cosa una nazione o una città hanno bisogno? Davvero ignoriamo quali sono i problemi che devono essere affrontati? Abbiamo davvero bisogno di Stati Generali, task-force ed esperti?

Chi fa politica oggi deve avere un approccio realista, deve guardare a quello che succede senza idealismi di maniera o un pragmatismo ottuso.

Abbiamo bisogno dell’ascolto per renderci conto del fatto che ci sono aziende piccole o grandi, artigianali o industriali che sono portatrici di valori, che garantiscono e generano occupazione, innovano, esportano, costruiscono il futuro? Queste vanno incentivate e supportate. Ce ne sono altre che non hanno possibilità di stare in piedi (quali che siano i motivi) e queste vanno aiutate a chiudere. È un atteggiamento crudele? Non credo, le risorse, sempre scarse per quante siano, sono degli italiani e vanno utilizzate bene.

Abbiamo bisogno dell’ascolto per capire che ci sono lavoratori che dolorosamente saranno espulsi dal mercato, aiutiamoli a trovare nuove opportunità, se è possibile, in ogni caso garantiamo loro una vita decente. Ma la maggior parte dei lavoratori vuole lavorare seriamente ed avere soddisfazione dal lavoro. Come la maggior parte degli imprenditori vuole lavoratori che lavorino bene, adeguatamente retribuiti, che siano stabilmente legati all’azienda. Cambiare il personale perché qualcuno va via spesso genera inefficienze anche nel caso dei lavori più umili.

Questa è un esempio di una visione realista che ci può aiutare a costruire: se vogliamo vedere la realtà scopriremo che il re è nudo.

Diciamocelo finalmente ed una volta per tutte, togliamoci gli alibi: la politica non è ascoltare Stati Generali, task-force ed esperti, la politica è rispondere ai problemi con soluzioni efficaci, prendendosi la responsabilità delle scelte.

“Pagare tutti per pagare meno” è soltanto uno slogan?


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L’ECONOMIA NON OSSERVATA, EVASA O ELUSA

La pecca più grande degli italiani, il loro vizio peggiore, il difetto più imperdonabile è la furbizia” diceva Franco Modigliani, premio Nobel per l’Economia nel 1985. Purtroppo questa è anche un’opinione diffusa, salvo poi scoprire che, tutto sommato, al più siamo dei “furbetti”, o forse siamo solo degli ingenui che si credono furbi, almeno a giudicare da quanto siamo facilmente manipolabili.

Una delle forme in cui l’italica furbizia si manifesta vistosamente è l’evasione fiscale: gli italiani sono accaniti evasori fiscali, questo è un fatto e molti pensano che sia questa la vera causa della pressione fiscale. Ad alimentare questo pensiero è la politica, amplificata dai media: quando siamo prossimi alla legge di bilancio la lotta all’evasione è la chiave per far quadrare sulla carta i conti dello stato. In questo modo Inoltre è facile individuare i colpevoli del disastro dei conti pubblici: i baristi, gli idraulici, i lavoratori autonomi e così via, veri criminali che rubano agli altri per arricchirsi smodatamente. E così si crea un’altra volta una doppia Italia: il lavoratore dipendente, ligio; l’autonomo o peggio l’imprenditore, specie quello piccolo e medio, furbo.

Non ci chiediamo qui quali siano le cause: la furbizia, la necessità di sopravvivere alla pressione fiscale, la legislazione complessa e incomprensibile che in questo modo favorisce chi può eludere, il cattivo uso che viene fatto delle tasse che versiamo, la paura che lo stato ci metta le mani in tasca, lo stato di polizia fiscale nel quale sentiamo di vivere, o altro ancora. Certo è che uno stato che intercetta il 59,1% del PIL e rende servizi che non sono certamente di adeguata qualità dovrebbe farsi qualche domanda.

L’evasione fiscale è un problema serio, e non è lo scopo di questo articolo giustificarla in nessun modo, non vi è dubbio, ma deve essere posto nella giusta prospettiva con una analisi che ci aiuti a capire meglio la natura, la dimensione e la realtà del fenomeno, concentrandoci sugli aspetti principali. Resta comunque il fatto che la fame dei conti pubblici, anche a prescindere dagli interessi sul debito, è tale che “pagare tutti per pagare meno” forse è soltanto uno slogan.

La fonte principale di questa prima parte è la “Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza 2019” del MEF, dove troviamo una tabella che riepiloga il gap delle entrate tributarie e contributive, gli ultimi dati si riferiscono al 2017.

Senza titolo

Il valore totale non riscosso ammonta a circa 110 miliardi, dovuti per 98 miliardi a minori entrate tributarie e 11 miliardi a minori entrate contributive.

Parlo di minori entrate e non immediatamente di evasione fiscale e contributiva perché già nelle note al documento si mette in evidenza che il gap complessivo relativo all’IRPEF da lavoro autonomo, IRES, IVA, IRAP, locazioni e canone RAI ammonta a circa 85,9 miliardi di euro: di cui 14,1 miliardi sono ascrivibili alla componente dovuta a omessi versamenti ed errori nel compilare le dichiarazioni, mentre il gap derivante da omessa dichiarazione ammonta a circa 71,8 miliardi di euro”. Immaginiamo che la natura degli omessi versamenti non sia esattamente la stessa della omessa dichiarazione, mentre nella vulgata giornalistica tutto viene considerato come evasione.

Analizziamo adesso le due voci più rilevanti: l’IVA per 36 miliardi di cui circa 26 non dichiarati e l’IRPEF per 33 miliardi, di cui 31 non dichiarati.

Il mancato incasso dell’IVA, che è la voce principale, è collegato all’IRPEF da lavoro autonomo: emergendo l’IVA naturalmente ci sarebbe minore evasione IRPEF.

Ma possiamo davvero immaginare che i nostri ristoratori, idraulici e altre tipologie di artigiani non abbiano complici in questa loro fraudolenta attività?

In realtà l’IVA è pagata dal consumatore finale ed è raccolta per conto del fisco dai lavoratori autonomi.

Immaginiamo quindi che certamente una parte di IVA non dichiarata sia dovuta a ricevute o scontrini non emessi fregando il cliente e lo stato, ma una parte non marginale è frutto di un patto scellerato basato su un semplice principio: non ti faccio la ricevuta così tu risparmi l’IVA e io ti faccio lo sconto.

Sono certo che non siano pochi gli italiani che hanno sollecitato o hanno aderito ad una proposta di questo tipo, vivendola come un legittimo risparmio e non come un atto criminale.

Dobbiamo anche ricordare che, oltre al secondo lavoro in nero, del quale non si riesce a tener conto affidabile, ma certamente diffuso anche per la necessità di integrare i redditi ufficiali, vi è una categoria di lavoratori dipendenti, spesso trascurata nel dibattito pubblico: quei lavoratori che forniscono servizi alle persone ed alle famiglie: badanti, babysitter e personale addetto alle pulizie domestiche. Sempre secondo lo stesso documento del MEF questi sono circa un milione, su circa 3,5 milioni di lavoratori non in regola, una parte dei quali è completamente a nero e 220 mila evadono parzialmente i contributi.

Per avere comunque una panoramica della situazione più completa è necessario tener conto anche di altre componenti che sottraggono al fisco, in forma diverse, importi molto ingenti: la cosiddetta economia non osservata definita sempre nello stesso documento del MEF come l’insieme del sommerso economico, dell’economia illegale, del sommerso statistico e dell’economia informale. L’economia non osservata e il gap delle entrate tributarie e contributive assieme vengono stimate pari a circa 190 miliardi di euro nel 2017, di cui poco meno del 50% è relativo all’economia non osservata.

Per fare un’analisi complessiva ci siamo basati su una ricerca di KRLS Network of Business Ethics, questa ricerca si concentra sulle tipologie di attori economici e non sulla tipologia di tasse, individuando 5 tipologie distinte:

  • lavoratori in nero secondo l’Istat sono circa 3,7 milioni di persone, molti di nazionalità straniera, compresi anche i circa 850.000 lavoratori dipendenti che fanno un secondo lavoro. Sono presenti principalmente nei servizi alla persona e alle famiglie, nell’agricoltura, nelle costruzioni, nei trasporti ed in altri servizi alle imprese. Si stima un’evasione d’imposta pari a 34,3 miliardi di euro.
  • economia criminale gestita dalle grandi organizzazioni italiane e straniere, ha un importante giro d’affari che produce evasione di imposta per 78,2 miliardi di euro l’anno. Di cui una parte non marginale è legata al traffico di stupefacenti (15,7 miliardi di euro) e che da solo genera un indotto per servizi (trasporti e logistica) pari a 1,3 miliardi ed alla prostituzione (4 miliardi di euro).
  • società di capitali il 78% circa delle quali dichiara redditi negativi o meno di 10 mila euro. In pratica su un totale di circa 800.000 società di capitali operative si stima un’evasione fiscale attorno ai 22,4 miliardi di euro l’anno.
  • big company internazionali o italiane che praticano principalmente l’elusione fiscale che in Europa vale circa 600 miliardi. Il 30% circa di solito si realizza ricorrendo al “transfer pricing”, grazie a questa pratica chiudono il bilancio delle loro filiali italiane in perdita e quindi non pagano tasse. In sostanza attraverso l’elusione spostano costi e ricavi tra le società del gruppo trasferendo la tassazione nei paesi dove di fatto non vi sono controlli fiscali (fonte: Università della California, Berkeley e Università di Copenhagen). In questo modo sottraggono al fisco italiano 37,8 miliardi di euro all’anno. Circa 7 miliardi di euro di questi sono da imputarsi principalmente a internet company.

Dove vanno questi soldi che derivano da una vera e propria evasione legalizzata?  Molti nella stessa UE dove a guadagnarci di più sono proprio i paradisi fiscali europei come l’Olanda, l’Irlanda, Il Belgio ed il Lussemburgo. Un esempio eclatante è Spotify che con 9 milioni di ricavi in Italia, paga tasse per 69 mila euro.

  • mancata emissione di scontrini, ricevute e fatture, tipicamente da parte di commercianti, lavoratori autonomi e piccole imprese, questa sottrae al fisco circa 8,7 miliardi di euro l’anno.

 

Queste analisi non tolgono né la gravità né l’iniquità dell’evasione fiscale e contributiva, ma mettono in evidenza che la criminalizzazione di alcune categorie, in particolare dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese è figlia di un pregiudizio ideologico ed è forse più funzionale ad un disegno politico e sociale che ad una onesta analisi di un fenomeno.

Se restiamo all’IVA e in parte anche all’IRPEF, l’evasione fiscale non è frutto di idraulici e falegnami criminali, né di baristi e ristoratori mano lesta; né di dipendenti che fanno un secondo o un terzo lavoro; non sono gli anziani e le famiglie che nottetempo rapinano lo stato con l’appoggio delle badanti e delle collaboratrici domestiche, ma una numerosissima “banda” di cittadini che, tutti assieme, trovando il loro vantaggio, vuoi per italica abitudine, vuoi perché ritengono che sia equo, sottraggono risorse allo stato.

O SI CRESCE O SI MUORE Le nostre malattie pregresse ed il COVID-19


Non c’è alternativa: questa volta dobbiamo fare sul serio, oppure il malato muore. Il malato è l’Italia, tutta. Alcune regioni stanno meglio, altre sono davvero fortemente compromesse, ma la partita possiamo ancora giocarcela: guarire l’Italia gravemente malata.

Se questa premessa dovesse lasciar immaginare un qualche facile ottimismo, beh, forse ho sbagliato a scriverla così; tuttavia sono ostinatamente convinto che, nonostante tutte le difficoltà da affrontare, e sono tante, nonostante i cambiamenti profondi che sono richiesti alla nostra società, potremmo ancora farcela.

Abbiamo già affrontato alcuni degli aspetti critici e le possibili soluzioni pensando solo alla pandemia, in questo articolo del 10 Aprile. Qui l’approccio è diverso, è più complessivo poiché mai come ora abbiamo la necessità di cercare soluzioni organiche e l’allentamento dei vincoli strutturali forse costituisce per noi una opportunità.

Certo se vado da un medico a farmi una visita di controllo e, nel mio caso, non mi dice in maniera puntuale ed energica che sono sovrappeso, che fumo troppo e che non faccio sufficiente attività fisica, ma genericamente mi rassicura, senza responsabilizzarmi,… forse faccio bene a non avere molta fiducia in quel medico. Lo so che sono sovrappeso, fumo e sono un animale da poltrona, ma, come un po’ tutti salvo gli ipocondriaci, ho sempre alibi da invocare: io mi sento benissimo; insomma, se vai in giro e guardi le persone ci sono tanti più grassi di me; sai quel tizio ha vissuto fino a novant’anni e fumava come un turco, e così via.

Senza una lucida diagnosi di cui prendiamo coscienza in realtà non vi è alcuna possibilità seria di cura.

Quello che in questi giorni non vedo assolutamente è proprio la diagnosi, tutti concentrati come siamo a cercare di parare i disastri della pandemia. Non credo che si possa ripetere un’occasione come questa, una situazione così difficile che siamo obbligati a reagire. Se perdiamo questa occasione il futuro per l’Italia è la svendita a prezzo di saldo delle migliori aziende, la scomparsa di un saper fare, il nostro, praticamente unico al mondo. Dimentichiamoci per sempre le glorie di quando eravamo tra le principali economie del mondo. “Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche al mondo. Se avesse un sistema politico, amministrativo, sociale serio l’Italia sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti a tutti. Anche agli Stati Uniti.” Diceva il Nobel per l’economia Franco Modigliani; se avesse…, ma non li ha.

Quindi prima la diagnosi, poi la cura, almeno per come la vedo io. Nulla di quello che dico nel seguito è del tutto nuovo, ma farne una sintesi semplice, supportata da fonti autorevoli, certamente ne rende più viva la percezione e questa, almeno secondo me, è la prima condizione per avviarsi verso una cura efficace.

Partiamo quindi dalle malattie, raggruppandole per tema. Perdonatemi se ho dovuto aggiungere qualche numero, mi sono limitato a quelli secondo me più rappresentativi per “misurare la febbre”.

  1. Non cresciamo da almeno vent’anni, anche nel confronto con il resto d’Europa. Dal 2000 al 2019 il PIL dell’area Euro è cresciuto del 31% mentre quello italiano è cresciuto del 4% (Eurostat). Al 2019 il rapporto debito pubblico/PIL era pari al 134,8%, se noi fossimo cresciuti come la media degli altri paesi, a pari debito pubblico il rapporto sarebbe stato del 107% circa. Oggi ci troveremmo certamente molto meglio ad affrontare questo sconquasso. Purtroppo l’economia non si fa con i se e con i ma. Perché non cresciamo? In sintesi perché non c’è una vera e propria politica industriale. Non ci sono scelte chiare, le nostre infrastrutture sono vecchie e di cattiva qualità: dai ponti che cadono alla qualità delle linee internet che abbiamo scoperto essere essenziali per lavorare o studiare da casa. Non abbiamo saputo investire sull’innovazione e sulla ricerca, non abbiamo preservato e supportato adeguatamente i nostri punti di eccellenza, abbiamo aderito indiscriminatamente ad una globalizzazione selvaggia e squilibrata e non abbiamo saputo far crescere i nostri distretti produttivi. La nostra cultura del bello e fatto bene, fondata su un numero elevatissimo di piccole imprese, è stata quella che ci ha consentito il boom economico, che cosa abbiamo fatto per aiutare queste imprese a renderla viva e produttiva nel mondo attuale? Insomma non è certo per malasorte che non cresciamo.
  2. Il costo della burocrazia è troppo alto. Secondo l’Osservatorio Costi della PA dell’Università Cattolica l’incidenza del costo della burocrazia sulle piccole imprese è pari al 2,7% del fatturato e per le medie aziende è pari all’1,2% del fatturato, applicando questi valori ai fatturati si arriva ad un costo di circa 54 miliardi l’anno. Non è troppo lontano da quanto stima la CGIA di Mestre che stima il costo in 57 miliardi.  Non basta: la PA a dicembre 2019 aveva debiti con i propri fornitori per 53 miliardi ed oltre ad un ritardo strutturale nei tempi di pagamento, costringe ad anticipare l’IVA riducendo ulteriormente la liquidità delle imprese.
  3. La pubblica amministrazione funziona male. Secondo la ricerca della Banca Mondiale Doing Business 2018, tra i 19 paesi dell’area Euro l’Italia è all’ultimo posto per il costo di avviamento di un’impresa e per i costi necessari a recuperare i crediti in caso di fallimento. Siamo al terzultimo posto per ore lavorative necessarie a pagare le imposte (238) e per ottenere una sentenza commerciale (1.120 giorni). Ci vuole di meno per ottenere il permesso per costruire un capannone (227,5 giorni), ma rimaniamo al quartultimo posto. E pensare che pochi anni fa eravamo orgogliosi di essere la quinta potenza economica mondiale! Il costo della Pubblica Amministrazione in Italia è pari a circa 175/180 miliardi e non è il più alto: Francia, Germania e Regno Unito spendono di più di noi, e pagano stipendi più alti dei nostri. Nella PA in Italia ci sono 3,2 milioni di dipendenti e negli ultimi 10 anni sono spariti 200.000 posti di lavoro tra autonomie locali e sanità. Il punto è che per la formazione di questi dipendenti la cui età media è di 54 anni, lo stato spende solo 49 euro a persona e che due uffici su tre non erogano servizi on line. Quindi la nostra PA non è efficiente.
  4. La pressione fiscale rispetto al PIL è eccessiva. Per quanto riguarda le persone fisiche siamo vicini alla media europea pari al 40,2 con il nostro 41,8%praticamente come la Germania.  La situazione cambia drasticamente se passiamo alle imprese. Con il 59,1% siamo secondi in Europa solo alla Francia, che ci supera con un 60,7%; in Germania, ad esempio la pressione fiscale è pari al 48,8% ed in Danimarca è pari al 46,2% (Eurostat). In realtà, anche se l’evasione pro capite in Italia è pari a 3.182 euro (rapporto Murphy – Parlamento Europeo), in Danimarca la pressione fiscale è inferiore di 13 punti percentuali e vi è tuttavia una evasione pro capite di 3.070 euro; in Germania di 1.522 euro.

Lo Stato in Italia recupera molto sulle accise sui carburanti che da noi pesano per 1,003 euro per litro, contro i 65 centesimi circa di Germania e Francia. Abbiamo poi la marca da bollo, che non esiste nelle altre nazioni, ed altre amenità. Per cui un italiano medio paga per queste micro-imposte da 1.500 a 2.000 euro l’anno. Non male vero? Solo in Portogallo ed in Bulgaria pagare le tasse è più complicato che in Italia; secondo la Banca Mondiale siamo tra i primi tre Paesi al mondo per complessità fiscale, preceduti da Turchia e Brasile, e siamo i primi in Europa in questa graduatoria degli asini.

  1. Con il COVID-19 le previsioni parlano di un crollo del PIL pari ad almeno il 10%, mentre ad aprile noi lo avevamo stimato pari ad almeno l’8,4%. La produzione industriale a marzo è crollata del 29,3%, nella media europea invece il calo è stato dell’11,3%. Certo siamo stati i primi a chiudere, ma siamo stati anche gli ultimi a riaprire.  In quali settori stiamo perdendo mercato? Certamente c’è un forte calo di consumi interni, ma anche l’export comincia a dare segnali di allarme. Federalimentare prevede un calo delle esportazioni del 15% per il 2020, mentre l’ISTAT parla di un -13,9% sul totale dei beni esportati. I settori trainanti del nostro export, ovvero articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici, prodotti alimentari, bevande e tabacco, componentistica automotive, beni strumentali sono tutti in forte calo. Anche quelli legati all’immagine dell’Italia, come la moda, l’arredamento, la gioielleria sono in gravissime difficoltà e intere filiere fatte da migliaia di piccole aziende o laboratori artigianali di altissima qualità rischiano di essere definitivamente travolti dalla situazione. Che dire poi del turismo? Negli anni ’70 eravamo la prima destinazione turistica al mondo, … poi siamo riusciti a portare praticamente al fallimento la nostra compagnia di bandiera e da anni continuiamo a perdere quote di mercato. Oggi non riusciamo ancora a definire quattro stracci di regole sensate per ricominciare.

Purtroppo non finisce qui, la lista potrebbe essere molto più lunga: l’inefficienza della giustizia, che tra l’altro soffre di una sovrabbondanza di leggi (non si sa se solo quelle statali siano 170 mila o 111 mila), la confusione di ruoli tra stato e regioni, i bassi investimenti in scuola, sanità, ricerca, ma alla base di molti dei nostri mali c’è una cattiva relazione tra persone e istituzioni

Ed è da qui che bisogna ripartire per la cura.