Piccole e Medie Imprese: sono davvero il problema?


Le PMI sono davvero il problema? Nella prefazione del PNRR firmato da Draghi la responsabilità della bassissima crescita del PIL italiano è attribuita alle PMI. Non c’è alcun cenno a responsabilità di altra natura che invece esistono. A parte la pericolosa generalizzazione e la necessità da parte di molte imprese di ripensare ai loro modelli, le cause del nostro grave deficit di produttività devono essere approfondite e non possono essere accettate a priori. Pena la distruzione della nostra economia e della nostra società.

Ho letto con attenzione il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR), un nome triste – le parole di moda come “resilienza” mi danno intrinsecamente fastidio, ma è un problema mio – suggerisco di leggerlo poiché è fondamentale per capire come viene disegnato il nostro futuro: indebitamento e possibilità di ripartenza.

È un documento costruito con un profluvio di 337 pagine piene di parole e numeri con un approccio serio e approfondito, ma fortemente determinato da uno specifico punto di vista. L’economia, infatti, è una scienza “debole”, come tante altre, non ha teoremi o certezze, non è come la matematica, anche se utilizza molti numeri e questo può trarre in inganno sulla sua attendibilità. È una disciplina che non può basarsi sulla sperimentazione, che non può utilizzare laboratori, anche se a volte abbiamo avuto la sensazione contraria. Si basa su congetture da cui si fanno discendere le ipotesi seguendo un processo razionale di concatenazioni di cause ed effetti. Maggiore è la complessità dei sistemi, maggiore è la possibilità che ci siano errori. Le congetture sono quindi un punto chiave e, nel nostro caso, le troviamo nelle premesse.

Mi ha colpito in particolare proprio nella premessa una affermazione: “Dietro la difficoltà dell’economia italiana…c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento.”… “Tra le cause del deludente andamento della produttività… la struttura del tessuto produttivo, caratterizzato da una prevalenza di piccole e medie imprese, che sono state spesso lente nell’adottare nuove tecnologie e muoversi verso produzioni a più alto valore aggiunto.”

Diamo un’occhiata al tessuto produttivo italiano.

Secondo ISTAT 2019 in Italia ci sono circa 4,4 milioni di imprese attive. Le imprese con meno di 9 dipendenti, le microimprese, rappresentano il 95,05% del totale, le grandi imprese con oltre 250 dipendenti e almeno 50 milioni di fatturato sono lo 0,09%, mentre le piccole e medie sono il 4,86%, pari a circa 213.000. Queste generano il 41% del fatturato, ed occupano il 33% degli occupati del settore privato.

Certamente le microimprese in genere sono un punto critico, tuttavia se consideriamo tutte assieme le aziende con più di 3 dipendenti queste sono poco più di un milione, producono l’84,4% del valore aggiunto nazionale, impiegano 12,7 milioni di addetti: sono un segmento fondamentale del nostro sistema produttivo. La premessa del sontuoso PNRR ritiene responsabili queste aziende della bassa produttività (considera anche le microimprese? La distinzione non è chiara) e quindi dei nostri problemi economici.

L’Italia differisce profondamente dalla struttura produttiva tipica delle altre nazioni europee e soprattutto dal modello culturale dominante, tutto orientato alla grande azienda. Siamo diversi perché abbiamo cultura, tradizioni e figure imprenditoriali diverse; sistemi fiscali e politici diversi. L’imprenditore non ha sempre avuto un vissuto positivo, come non è ancora chiaro a tanti che la ricchezza la creano le aziende.

Moltissime delle cosiddette PMI sono elementi fondamentali della creazione del valore di altre aziende, come quelle della moda, o sono parte essenziale ed integrante di catene del valore complesse e globali. Rappresentano un unicum che viene messo in discussione a causa di un approccio esterofilo, a volte troppo scolastico, senza un minimo sforzo di interpretazione degli aspetti positivi di queste storie imprenditoriali e delle reali cause dei problemi della nostra economia.

Certamente alcune responsabilità non marginali sono da attribuire alle PMI, ma penso che sia troppo semplicistico attribuire a queste la responsabilità dello stato disastroso della nostra economia, dimenticando completamente che queste generano ricchezza economica e spirito imprenditoriale e mettendole sotto accusa.

Prima di tutto una questione di metodo: un universo di circa un milione di soggetti non si può solo segmentare per settore di appartenenza, addetti, fatturato per poi emettere una sentenza. Bisogna analizzare in maniera più attenta per capire davvero la natura dei problemi.

Alcune considerazioni utili per discutere il PNRR che guiderà l’Italia nei prossimi anni.

  • Sembra quasi che piuttosto che partire dalla realtà e cercare come migliorarla, senza appiattirsi, si parta da un modello, quello della predominanza della grande impresa, considerato a priori virtuoso, perché tale è in altri contesti con storie imprenditoriali e culture diverse e si cerchi di applicarlo. È un pericolosissimo approccio verticistico, tipico di certa ingegneria sociale che può creare enormi danni alle persone.
  • Ricostruire secondo l’impostazione europea (loro mettono i soldi, anche se non tutti e quindi loro decidono) temo che ci porterà ad una forte dipendenza dall’economia pubblica, a discapito dell’imprenditoria privata, con tutto ciò che ne consegue.
  • Moltissimi settori sono penalizzati dalla mancanza di azioni efficaci che non possiamo aspettarci dai singoli produttori. Pensiamo ad esempio all’agroalimentare. Nella produzione vitivinicola e nei formaggi siamo leader in termini di quantità prodotte rispetto alla Francia, ma siamo deboli in termini di valore della produzione e di export, insomma loro spuntano prezzi medi più alti e vendono di più all’estero. Eppure i nostri prodotti non sono certo di peggiore qualità. Quanto dipende dal supporto di promozione che i francesi sanno fare? Loro hanno Lactalis ed i piccoli produttori, noi abbiamo ceduto Parmalat, Invernizzi, Galbani e Locatelli e questo è successo in molti comparti dell’agroalimentare, e non solo.
  • In molti settori, l’automobile, la meccanica, e così via abbiamo aziende di successo con elevatissime competenze; in altri, quelli tipici del Made in Italy il valore spesso è creato dalla filiera. Quanto del valore aggiunto di Gucci, ad esempio è creato dalle piccole aziende manifatturiere specializzate, capaci per creatività e competenze di produrre eccellenza?
  • Nel manifatturiero la ricerca di perfezione o dell’alta qualità non coincide con il paradigma della produttività, ma con la percezione del valore. Produrre arredamento di qualità richiede un approccio diverso da quello di Ikea, campione di produttività, se non difendo il prezzo finale la produttività crolla. È in questo ambito che la mano pubblica si deve impegnare in termini di reputazione e di supporto attivo se volgiamo difendere la nostra cultura.
  • Nella manifattura italiana c’è un grave problema di disponibilità di forza lavoro qualificata. Un’inserzione per cercare un giovane nel marketing porta, ad esempio a cento curricula, per cercare un giovane prototipista invece pochissimi CV. La formazione tecnica è la chiave per sviluppare il settore manifatturiero e non è solo un problema di investimenti, ma di metodo didattico.  Bisogna investire sulla formazione professionale, con gli ITS. Il vissuto sociale di queste professioni, che invece rappresentano una delle chiavi principali per il rilancio della nostra competitività, l’appeal che esercitano sui giovani e sulle famiglie è scarso.
  • Certamente è necessario integrare la digitalizzazione nella cultura delle PMI italiane, anche qui è necessaria una riflessione. Non possiamo immaginare un modello di formazione astratta e slegata dal modo di pensare degli imprenditori. È necessario trovare un nuovo modello centrato ad esempio su testimonianze dirette, sull’affiancamento operativo nel ridisegnare i processi, su un intervento nelle aziende che non sia basato sull’aula, ma sul lavorare assieme a risolvere i problemi.