Meritocrazia?


È innegabile che in Italia sia importante premiare di più il merito, ma la meritocrazia, figlia di un connubio ideologico tra moralismo e neopositivismo, potrebbe rappresentare un grave problema proprio per chi la invoca. È una medicina che vorrebbe rendere la società più efficiente e la vita dei singoli più giusta, ma rischia di aumentare lo stress da competizione generando ancora più ingiustizie.

È una parola che sembra antica, inganna perché suona come democrazia, in realtà è stata inventata dal sociologo laburista inglese M. Young nel 1958. Letteralmente significa “potere al merito”.

Esiste addirittura una formula per definire il merito: m=IQ+E, quindi il merito è il risultato della somma del Quoziente di Intelligenza QI più lo sforzo E. Da una parte una dote naturale e dall’altra l’impegno personale.

Prendiamo per buona la formula e ragioniamo sui suoi addendi: il QI dipende certo dall’educazione ricevuta e da fattori che sono sociali ed ambientali (non c’è grande merito in tutto ciò, hai solo vinto la lotteria della vita) e l’impegno dipende dal giudizio degli altri, dal contesto storico e politico, non può certamente essere un fatto oggettivamente misurabile, né può contare l’autovalutazione. Il merito infatti viene valutato da qualcuno che stabilisce i criteri e valuta. Nella società staliniana o in qualsiasi dittatura il criterio del premiare lo sforzo, che pure era ben presente, non ha certo creato una società giusta.

Insomma anche se c’è una formula a me sembra un pasticcio che ci aiuta poco a definire il merito e come valutarlo.

Quando Young scrisse il suo saggio nel quale inventava la parola meritocrazia, non gli attribuiva certo un valore positivo: la sua era una critica profonda ad ogni sistema che si fosse basato su questo concetto. Per lui questo principio era letteralmente pericoloso poiché, Aristotele l’aveva già detto, il principio meritocratico sarebbe stato l’anticamera della tecnocrazia oligarchica, l’annullamento della democrazia.

Ha certamente senso che chi merita di più ottenga di più, non fino al punto di attribuirgli un vantaggio eccessivo rispetto agli altri; né è accettabile l’egualitarismo, l’1=1, anche se tutte le persone devono avere garantito uguale trattamento ed uguali opportunità, che è il contrario della meritocrazia.

Come si vede il problema del merito non è così semplice da districare.

Se definiamo la tanto invocata meritocrazia come l’idea guida di una società in base alla quale le responsabilità vanno attribuite a coloro che mostrano maggiore intelligenza e doti naturali, oltre ad avere un maggiore impegno nello studio, nel lavoro e nella vita, il problema in realtà non si chiarisce ed il risultato può risultare paradossale: tutti gli ambiti nei quali la meritocrazia è regola, in particolare quando è possibile applicare criteri “oggettivi”, producono diseguaglianze economiche e sociali. Pensiamo ad esempio allo sport professionistico nel quale il merito è valutato sulla base dei risultati misurabili conseguiti: una analisi dei compensi dei professionisti mostra come negli ultimi 30 anni il primo 10% abbia visto crescere le proprie retribuzioni circa 10 volte di più della crescita media in quello sport. È logico, se ci pensiamo, chi ha più soldi è disposto a pagare per accaparrarsi il primo e se non può il secondo e così via, ma quando sei l’ennesimo? 

Che cosa succede invece quando i criteri di valutazione del merito sono meno quantificabili, cosa succede in pratica nella scuola, nel mondo del lavoro o delle professioni? La strada che normalmente si segue è quella del valutare i risultati: hai conseguito una laurea? Hai vinto un concorso? Hai lavorato in una certa azienda? Più sono alti i risultati conseguiti, più la società meritocratica ti premia. E gli altri? La società meritocratica li punisce: se il tuo voto di laurea non è alto, se non ti sei laureato in una università di un certo tipo, se non sei arrivato tra i primi ad un concorso e così via è solo colpa tua! Non ce la fai a competere e quindi non te la puoi prendere con nessuno: la colpa del tuo fallimento è solo tua.

In pratica il merito viene misurato sulla base del curriculum. Partiamo dalla scuola: Thomas Piketty, noto studioso francese che si occupa delle disuguaglianze nella società, ha messo in evidenza che vi è una stretta relazione tra la geografia economica delle grandi città ed il prestigio delle scuole. I più ricchi si concentrano in alcune zone, che sono quelle dove hanno sede le scuole con una più alta reputazione.  Da sempre le élite che si sono formate nelle scuole di eccellenza tendono a rigenerarsi: i figli seguono spesso il percorso dei genitori, e per fortuna a volte anche i ricchi hanno figli stupidi o svogliati, altrimenti i ricchi sarebbero sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri.

Se poi si passa alla ricerca del lavoro, specie all’inizio, la valutazione dei candidati è certamente influenzata dalle scuole frequentate. D’altra parte scrivere un progetto in un buon inglese, parlare correntemente più lingue o superare un colloquio con una valutazione alta spesso dipende più dal contesto sociale di provenienza che dalla maniera con cui si è seguito il curriculum di studi.

In un processo di selezione è il merito che favorisce alcuni a discapito di altri o sono stati principalmente altri fattori?

Insomma in una società perfettamente meritocratica le disuguaglianze economiche e sociali tendono ad aumentare, mentre la competizione, le lotte, la frustrazione della maggioranza delle persone crescono e la meritocrazia concede una patente di moralità e legittima questo modello sociale.

Dove è finita la richiesta di democrazia che cercava di offrire a tutti una partecipazione alla società in piena uguaglianza? Dov’è la libertà di scelta educativa: è rimasta solo come dichiarazione di intenti nella nostra Costituzione?

Io credo che si debba perseguire l’idea di premiare il merito, ma quest’idea per funzionare necessità di una forte dose di recupero della responsabilità di chi sceglie. Deve essere spogliata della componente moralistica neopositiva. Gli esami a crocette apparentemente promuovono il merito, in realtà fingono di rendere oggettiva la valutazione, dimentichiamo la pretesa di oggettività nel valutare le persone: non è possibile, è una pericolosa illusione.

Conte è figlio della USP


5302898_1717_casalino_1_Solo lo stato di emergenza tiene in piedi questo improbabile governo.

Altro che storytelling e balle varie che oggi vanno tanto di moda. Le vecchie tecniche di comunicazione funzionano sempre, eccome se funzionano. Chiedetelo al duo Casalino-Conte!

Quando nel 1940 Rosser Reeves, che avrebbe poi curato la campagna per le presidenziali di Eisenhower nel 1952, teorizzò il modello di funzionamento della pubblicità che chiamò Unique Selling Proposition (USP), non avrebbe mai immaginato che ottant’anni dopo sarebbe stato utilizzato con grande successo da qualcuno per governare una nazione: l’Italia.

Come spesso succede le mode cambiano, nel marketing in particolare: dagli oceani blu al design thinking. Sistematicamente qualcuno si inventa e promuove un metodo garantito per vendere, trovare nuovi clienti, convincere, insomma per fare soldi.

Una cosa è certa: se è bravo a vendersi prima di tutto i soldi li fa sicuramente lui. Certo ha bisogno del supporto dell’Accademia, quella con la A maiuscola, di qualche articolo su prestigiose riviste scientifiche e magari di altri autori che vantino i prodigiosi risultati che si possono ottenere adottando quel metodo, ma non è così difficile se hai le conoscenze giuste.

Spesso si tratta di idee che magari funzionano anche, ma gli autori si dimenticano sempre di dirti due cose importanti: che non possono funzionare ogni volta e che il risultato non dipende da cosa fai, ma da come lo fai.

Con i vecchi metodi, basati su poche regole da seguire, il risultato eccellente ugualmente non è certo, ma qualche effetto si ottiene sempre.

Per non parlare in astratto facciamo un esempio. Lo storytelling. Il principio su cui si fonda è il fatto che da sempre nella nostra cultura occidentale, le storie si ricordano più facilmente delle affermazioni. È come se fosse una caratteristica del nostro cervello. Tutto il sapere, per migliaia di anni, si è costruito infatti attraverso la narrazione di storie: dalla Bibbia, all’Iliade fino ai grandi romanzi dell’Ottocento; attraverso queste storie si è creata la civiltà occidentale: i suoi valori, il costume, le tradizioni e così via. Insomma, la narrazione è probabilmente un sistema di comunicazione molto efficace.
Pensiamoci un attimo: secondo voi è la stessa cosa se una storia la scrive, che so, Hemingway oppure se la scrivo io? Come diavolo potete pensare che un qualsiasi copywriter riesca a scrivere, almeno qualche volta, storie che funzionino al punto da investirci soldi e legare il successo commerciale a quella storia?
Probabilmente funziona solo se il budget di comunicazione è molto alto. Come sempre.

L’USP si basa su tre semplici regole:
1.     Proporre un beneficio per il consumatore
2.     Questo beneficio non possa essere garantito da altri
3.     Il beneficio deve essere così vantaggioso che spinga milioni di consumatori all’acquisto.

Perché Conte è figlio della USP
Con il Corona virus gli italiani, atterriti dalle immagini delle televisioni e dai numeri del bollettino di guerra quotidiano; incapaci di spiegarsi le contrastanti opinioni degli esperti; preoccupati dalla mancanza di soldi, oppure reclusi in spazi dormitorio, hanno dovuto accettare una situazione mai vissuta prima in cui “l’uomo solo al comando” dettava le condizioni del vivere quotidiano, formalmente supportato da task-force, esperti, commissari.
Ogni giorno venivano annunciati proclami che, letti a distanza da quei momenti, oggi sembrano una commedia recitata da un attore mediocre, di fronte a spettatori che vivevano una tragedia.
Ed il messaggio era uno solo e sempre lo stesso: la paura.

Conte è passato senza arrossire o perdere l’aplomb della sua curata pettinatura dall’essere alleato di Salvini a diventare il suo più aspro nemico. La cronaca quotidiana ci mostra che i partiti che sostengono il governo non sono d’accordo su nulla ed ogni giorno litigano su qualcosa: ogni provvedimento è annunciato, rettificato, ritardato, modificato, sempre al di fuori di una normale dialettica democratica. Né dobbiamo dimenticare che i roboanti proclami, gli annunci tronfi e l’utilizzo di bazooka vantati, sono stati solo pessima retorica in un momento in cui avevamo (ed abbiamo) bisogno di fatti.
Il governo non ha in numeri nel paese, ma grazie alla democrazia parlamentare, potrebbe durare fino alle prossime elezioni: Conte ed i partiti che lo sostengono hanno bisogno dello stato di emergenza. È stato impudicamente aiutato dal Covid 19, o meglio dalla paura del Covid. Sta in piedi solo se questa paura continua ad agire sugli italiani: se li domina, li sottomette.
E stando in piedi, sopravvivendo nonostante tutte le sue criticità, nonostante il fatto che non rappresenti la maggioranza degli elettori, garantisce un beneficio a diversi gruppi di “consumatori”, proprio come prevedono le regole della USP.

Prima di tutto il beneficio.
Per i parlamentari della sua maggioranza è chiaro: finire la legislatura con tutti i vantaggi che ne conseguono.
Per l’Unione Europea la continuazione del governo Conte è una benedizione: un capitan Fracassa in fondo non fa molta paura. Finché il governo è nelle sue mani non ci sono rischi di derive audaci e magari tengono più facilmente sotto controllo una delle economie più grandi d’Europa.
Ma serve la promessa di un importante beneficio per gli italiani, per avere abbastanza consenso. Quale beneficio è così sentito, forte, capace di coinvolgere come la sicurezza per la propria salute? E più sei capace di seminare paura, più la promessa di sconfiggere il nemico diventa potente.

Qual è la situazione oggi?
Nonostante da più parti gli esperti affermino che l’emergenza sanitaria è finita o è sotto controllo e che abbiamo imparato come gestire eventuali nuovi focolai, Conte afferma con il suo solito piglio che il coronavirus “è ancora una sfida insidiosa”.
Oggi stiamo vivendo un’emergenza economica gravissima che riguarda le piccole aziende, le partite IVA, i lavoratori autonomi. Interi settori sono al collasso e anche i dipendenti che non hanno ancora visto la cassa integrazione sono preoccupati e non poco.
E molti annunciano un autunno difficilissimo.
Ma l’ombrello della proroga dello stato di emergenza fino a fine dicembre serve per poter prendere decisioni immediate, anche in deroga a ogni disposizione vigente. Garantisce la vita del governo. È una beffa al parlamento ed agli italiani.

È indispensabile però supportare la USP: la comunicazione sulla situazione del Covid in Italia continua ad essere negativa, allarmistica e catastrofista. Molti media continuano a stressare l’idea che ci sono ancora troppi focolai, che troppi non seguano le regole e che l’epidemia in molte regioni (la Lombardia ovviamente è il primo imputato) non sia adeguatamente controllata.
Lo stato di emergenza è un’arma potentissima che garantisce il prosieguo del governo. Il supporto a questa richiesta è il timore alimentato da piccoli focolai, nella maggior parte dei casi dovuti a persone che vengono dall’estero e non sono controllate adeguatamente.

Bisogna alimentare la paura, ma bisogna avere comunque una qualche forma di consenso e allora l’ipotesi di proroga dello smart working per i dipendenti pubblici, tanto che gli cambia alla maggior parte di loro e sono tanti, felici di lavorare da casa? I roboanti e fanfaroneschi proclami di miliardi in arrivo per grazia di qualche santo europeo per gli altri.

Più forte sarà il messaggio legato alla paura di tornare alla chiusura dell’Italia, maggiore sarà il numero di quanti accettano lo stato di emergenza come la soluzione ai problemi. Più forte sarà condizionamento collettivo più sarà improbabile che venga in mente alle persone l’idea di scendere in piazza.

Una unica selling proposition: la paura del Covid 19 ha tenuto in piedi questo improbabile governo e forse purtroppo gli consentirà di arrivare a fine legislatura evitando il confronto con la realtà del paese: il voto politico.

Stati Generali, task-force, esperti: l’alibi dell’ascolto


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La politica è ascolto è un luogo comune erroneo e pericoloso che da almeno vent’anni ricorre in tutte le salse. No, caro eletto, se sei lì, al parlamento o al consiglio di quartiere, è perché io cittadino mi aspetto da te soluzioni.

Il lavoro del politico non è l’ascolto, semmai questo può essere un mezzo, a volte un mezzuccio per giustificare la tua insipienza (ormai spesso sei diventato solo una mano che si alza a comando). Il tuo lavoro, caro politico è trovare soluzioni efficaci ai problemi, è per questo che ti abbiamo eletto.

Da dove nasce questa idea che la politica si faccia con l’ascolto e che è diventata un vero strumento di “distrazione di massa”? Ho provato a fare una breve lista.

  1. Gli anni della concertazione. Tutto comincia secondo me nel 1993 (al governo c’era Ciampi), quando l’accordo tra governo di centro sinistra e sindacati consentì di affrontare con successo il problema dell’inflazione.

Oggi questo sistema è entrato in crisi perché i corpi intermedi, i sindacati in primis, hanno assunto un atteggiamento solo corporativo, perdendo di vista l’interesse generale; la politica cerca più il consenso che la responsabilità delle decisioni e infine la società non è più basata sull’operaio ed il padrone. Quello che ci portiamo dietro è l’idea che la pratica politica passi attraverso l’incontrare persone. Oggi non è nemmeno più negoziazione come nel 1993, spesso è incontro fine a se stesso.

  1. Il profilo di chi fa politica è cambiato, anche in maniera profonda. Prima si arrivava ad una carica elettiva dopo un lungo processo di selezione e formazione, che si trattasse delle associazioni giovanili, dei sindacati, dei partiti non ti trovavi dall’oggi al domani proiettato in una posizione senza aver percorso una strada, a volte anche lunga. Questo processo garantiva che chi aveva deleghe di rappresentanza politica fosse espressione degli interessi di un territorio o di una categoria, quindi conoscesse i problemi. Vi era poi un raccordo, che forse oggi manca completamente, tra i vari livelli di rappresentanza: dai consigli di quartiere al governo, che garantiva il flusso delle informazioni su problemi e situazioni particolari.
  2. Il centralismo. Con l’idea di superare i problemi abbiamo accentrato le decisioni. Il decentramento locale non è stato mai messo davvero in atto, per quanto previsto dalla Costituzione più bella del mondo. L’Italia è lunga, con problemi e caratteristiche diverse anche nella stessa regione, il centralismo ha reso impossibile leggere lo specifico dei territori.

Consideriamo ad esempio le scelte di politica industriale: queste nascono da territori, settori, filiere produttive che vanno lette ed interpretate. La politica industriale al contrario, resa centralistica, è diventata solo gestione della finanza pubblica con le leggi finanziarie. Il resto è solo inutile dettaglio che distrae soldi e toglie al governo lo spazio per seguire i suoi interessi.

  1. La politica mediatizzata con social e tweet ha poi portato ad utilizzare questi strumenti per mostrare di essere attivi, per comunicare, quasi che un politico sia diventato alla stregua di un influencer, pagato in base ai follower ed ai like. I voti però sono un’altra cosa.

Davvero non sappiamo di che cosa una nazione o una città hanno bisogno? Davvero ignoriamo quali sono i problemi che devono essere affrontati? Abbiamo davvero bisogno di Stati Generali, task-force ed esperti?

Chi fa politica oggi deve avere un approccio realista, deve guardare a quello che succede senza idealismi di maniera o un pragmatismo ottuso.

Abbiamo bisogno dell’ascolto per renderci conto del fatto che ci sono aziende piccole o grandi, artigianali o industriali che sono portatrici di valori, che garantiscono e generano occupazione, innovano, esportano, costruiscono il futuro? Queste vanno incentivate e supportate. Ce ne sono altre che non hanno possibilità di stare in piedi (quali che siano i motivi) e queste vanno aiutate a chiudere. È un atteggiamento crudele? Non credo, le risorse, sempre scarse per quante siano, sono degli italiani e vanno utilizzate bene.

Abbiamo bisogno dell’ascolto per capire che ci sono lavoratori che dolorosamente saranno espulsi dal mercato, aiutiamoli a trovare nuove opportunità, se è possibile, in ogni caso garantiamo loro una vita decente. Ma la maggior parte dei lavoratori vuole lavorare seriamente ed avere soddisfazione dal lavoro. Come la maggior parte degli imprenditori vuole lavoratori che lavorino bene, adeguatamente retribuiti, che siano stabilmente legati all’azienda. Cambiare il personale perché qualcuno va via spesso genera inefficienze anche nel caso dei lavori più umili.

Questa è un esempio di una visione realista che ci può aiutare a costruire: se vogliamo vedere la realtà scopriremo che il re è nudo.

Diciamocelo finalmente ed una volta per tutte, togliamoci gli alibi: la politica non è ascoltare Stati Generali, task-force ed esperti, la politica è rispondere ai problemi con soluzioni efficaci, prendendosi la responsabilità delle scelte.

Al di là dei numeri ci sono le persone


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http://www.lirragionevole.it/economia-lavoro/il-futuro-e-nero/

Il futuro è nero!

Perdita di ricavi 30%*, impossibile da calcolare la perdita di posti di lavoro.

Ristoranti, bar, gelaterie, parrucchieri, estetiste e palestre saranno gli ultimi ad aprire e, forse, sono quelli che rischiano di più, prima di tutto per la loro natura di microimprese o di piccolissime aziende. Quanti di loro riusciranno a sopravvivere? Come stanno affrontando la confusione attuale di norme annunciate, ma non formalizzate, giusto per fare chiarezza. Di esperti in tutto che non riescono a partorire 10 regole comprensibile per spiegare a quali condizioni si può ricominciare a lavorare?

Sono moltissimi, rappresentano una grande parte di quella classe media italiana che con le sue attività nutre in maniera non marginale il bilancio dello Stato. A volte hanno una storia come imprese di famiglia o sono persone che hanno inventato un modo per vivere che, coniugando passione ed imprenditorialità, investendo in proprio ed assumendo persone, gli consente di vivere del loro lavoro. Hanno scelto orgogliosamente, spesso hanno seguito un sogno coltivato per anni, lavorano ben al di là degli orari sindacali, senza alcuna tutela, che si ammalino o che arrivi il corona virus. Oggi sono preoccupati non solo per il presente e per la prossima fase di riapertura dopo tre mesi di chiusura forzata, ma ancora di più per il loro futuro a rischio di indigenza, ma anche per il futuro dei loro dipendenti. Ylenia, parrucchiera ha sintetizzato la situazione sua e di tanti altri così: “la situazione è davvero critica, il futuro lo vedo nero!”

Se fino a ieri l’Italia si divideva in garantiti e preoccupati, già oggi si vede crescere a vista d’occhio un terzo gruppo: gli italiani disperati! Potrebbe essere uno sconvolgimento drammatico dell’architettura e della composizione della nostra società con conseguenze economiche, sociali e politiche imprevedibili.

 

All’interno di queste categorie che è previsto aprano a giugno ne abbiamo intervistati ventuno, dai 2 ai 70 dipendenti, con uno o più locali, proprio per capire qual è la loro condizione attuale e come vedono il loro futuro.

Hanno reagito con grande disciplina e senso del dovere alla chiusura imposta, ed all’inizio non tutti hanno sentito il morso delle drammatiche conseguenze che potevano derivare da questa situazione. Hanno chiesto ai proprietari dei locali di fargli uno sconto temporaneo sull’affitto, e alcuni l’hanno ottenuto; hanno messo in cassa integrazione i dipendenti (la grande maggioranza lamenta che a fine aprile nessuno aveva ricevuto i soldi) e poi hanno cominciato a vivere questa nuova condizione da reclusi fatta di televisione, chat, incertezza, notti insonni e pensieri.  Con il passare dei giorni, con l’aggravarsi della situazione e con la confusione generata dalle indicazioni degli esperti e dalle norme, attraverso il confronto con i colleghi, è emersa la percezione di un disastro.

Abbiamo chiesto ai nostri interlocutori come si stanno preparando alla riapertura del 1° giugno, che cosa prevedono per la loro attività quest’anno e come vedono il futuro del loro lavoro.

 

Prima di tutto è emerso che una parte dei nostri interlocutori condiziona la possibilità di riapertura alla definizione precisa dei protocolli sanitari, delle regole e dei supporti finanziari (quanto e quando) che saranno resi disponibili. Un ristoratore ci ha detto: “se chiederanno la distanza tra i tavoli di 2 metri, l’aria condizionata spenta, i divisori tra i tavoli, di conseguenza la riduzione di due terzi del numero di coperti e l’abolizione del menu su carta, non ci saranno le condizioni per aprire. Sarebbe indispensabile almeno una moratoria per le tasse per il 2020, cancellarle, non rimandarle, ed agevolazioni di tutti i tipi: affitti, utenze, e poi aiuti concreti per sopportare i maggiori costi dovuti a questa situazione.”

Chi conta invece sulla riapertura si divide grossomodo in due gruppi: quelli che aspettano le normative per valutare e capire, un titolare di palestra ha detto: “non mi sto preparando finché non sappiamo tempi e protocolli, quando è tutto chiaro ci rivolgeremo ai nostri fornitori per i presidi necessari e per le sanificazioni”. Ed ancora una parrucchiera estetista dice: “siamo stati dimenticati e non solo la mia categoria. Con tutta la confusione che c’è, con le continue anticipazioni, spesso contraddittorie, non spendo soldi se prima non pubblicano ufficialmente le regole. C’è un caos totale, voci di ogni tipo, solo ipotesi”.

Un altro gruppo ha invece già idee su come riaprire, anche se ogni tipo di attività ha le sue problematiche specifiche e si orienta di conseguenza. A parte i ristoratori che per primi sono riusciti ad attivare il delivery e l’asporto, che certo non bastano per sopravvivere, ma hanno consentito di tenere accese le macchine, gli altri fanno affidamento per la riapertura su suggerimenti degli esperti del settore, (spesso fornitori) o su indicazioni fornite dalle associazioni di categoria. Altri ancora si basano su chat con gruppi di colleghi o su quello che hanno sentito dire in televisione. Una parrucchiera ci ha detto: ”una cosa è certa: avremo un sacco di spese ancora prima di riuscire a riaprire

 

Le previsioni di ricavi per il 2020 nell’opinione dei nostri interlocutori vanno da una perdita del 50% al 70%, non solo a causa dei tre mesi di chiusura, dei maggiori costi e dei minori ricavi legati alle nuove regole, dell’innegabile percezione di un forte impoverimento dei clienti, ma anche perché nessuno si aspetta, neanche i pochi ottimisti, che le persone escano rapidamente da questa situazione. Un ristoratore si chiede. ”apriremo le nostre porte, apparecchieremo tutto secondo le nuove norme, seguiremo tutte le procedure, ma i clienti verranno? Avranno fiducia?”

Il centro studi di Unimpresa stima che a giugno il 30% delle attività legate al commercio ed alla ristorazione non riaprirà e di conseguenza si allargherà moltissimo la platea dei disoccupati aggravando una crisi sociale già percepibile.

 

Le condizioni necessarie per far sopravvivere le loro attività sono legate ad alcuni punti sostanzialmente uguali per tutti: chiarezza sulle regole di funzionamento delle loro attività, possibilità di proseguire con la cassa integrazione per i dipendenti, cancellazione degli adempimenti fiscali per il 2020, apporto di liquidità a fondo perduto pari almeno ai costi che devono sostenere per rispettare le nuove norme, semplificazione degli adempimenti burocratici e possibilità di ottenere dalle banche finanziamenti a tassi agevolati con tempi di restituzione lunghi. Senza queste condizioni la soluzione per tutti gli intervistati è il licenziamento del personale ed il rischio di chiusura entro la fine dell’anno diventa molto elevato. Se si considera poi l’impatto drammatico sul turismo, l’impatto sul PIL e sulle finanze pubbliche è difficile da immaginare e le conseguenze non sono prevedibili: potrebbe innescarsi una reazione che coinvolgerebbe una grandissima parte della popolazione, compresi forse anche alcuni dei garantiti. (aggiungere link all’articolo garantiti e preoccupati?)

 

C’è un altro aspetto che ci preme sottolineare: i numeri sono aridi, non raccontano la realtà delle persone. Quelle chiusure non sono solo saracinesche che probabilmente rimarranno chiuse a lungo, o soldi investiti che nessuno recupererà, sono delusioni, frustrazione, famiglie impoverite, ma anche facce tristi, notti insonni, malattie (pochi stanno sottolineando che all’impoverimento corrisponde un aumento delle malattie ed una minore attenzione alla salute), minore investimento sulla formazione dei figli, minore natalità, qualcosa insomma che se consideriamo le persone e non i numeri provoca brividi.

Chi ha la possibilità di trovare soluzioni deve guardare in faccia queste persone, non solo i numeri?