Perché non dobbiamo lasciare l’Italia in mano agli scienziati.


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L’Italia rischia di affondare: per rilanciare l’Italia e progettare il nostro futuro non dobbiamo lasciare le scelte in mano agli scienziati o ai tecnici.  Torniamo alla politica.

 

La medicina ha fatto una gran brutta figura in questo periodo di Covid19.

Dagli scienziati ne abbiamo sentite di tutti i colori in questi difficili mesi: “le mascherine non servono; le mascherine sono essenziali; il virus si estingue con il caldo; il virus continuerà a girare; si ripresenterà in autunno; ha perso la sua forza; è clinicamente estinto; si può risolvere il problema con….; bisogna aspettare il vaccino; l’OMS dice che….; il professor tale sostiene che…”. Insomma pareri opposti, polemiche anche aspre fra gli addetti ai lavori, ricette discordi e noi impauriti, confusi chiusi in casa a chiederci come mai oggi, nel 2020, non fosse possibile trovare una soluzione diversa da quelle che venivano suggerite nel corso delle pestilenze o della spagnola, con tanti esperti in tutto il mondo coinvolti.

Che siano virologi, infettivologi, economisti o studiosi della politica, di una cosa sono certo: considerandoli “scienziati” attribuiamo loro delle capacità ed un potere che per la natura stessa della loro disciplina non possono avere.

È già successo, più di una volta: quando la regina Elisabetta d’Inghilterra, dopo la crisi del 2008, andò in visita alla prestigiosa London School of Economics, fece al rettore una domanda che tutti ci siamo fatti nella nostra testa: perché nessuno ha previsto il disastro?

Già, perché gli scienziati non riescono a prevedere i disastri?

La parola è la più potente di ogni arma, pare che dicesse l’egiziano Ptahhotep circa 5.000 anni fa, e noi abusando della parola scienza, utilizzandola in maniera indiscriminata, ne abbiamo modificato e diluito il senso. Gran parte del problema infatti nasce, ne sono sempre più convinto, dalla ambiguità del termine scienza.

A proposito: scienza o scienze?

Siamo portati a definire scienza qualsiasi disciplina studiata nelle università, attribuendo a queste la stessa affidabilità delle scienze sperimentali. Ma le scienze non sono tutte uguali in termini di affidabilità, contenuto di verità e soprattutto per quanto riguarda le conseguenze sulla vita quotidiana delle persone. Li chiamiamo scienziati, ma spesso sono solo esperti. Ed ancora una volta il linguaggio non aiuta: in questi giorni ho sentito i giornalisti chiamarli scienziati, e loro stessi, parlando del loro lavoro, dire che “attraverso una ricerca scientifica abbiamo dimostrato, verificato, provato…”. Certo queste discipline accademiche hanno un metodo, autorevoli pubblicazioni, un sistema di relazioni e di verifiche tra studiosi, ma basta questo per definirle scienze?

Quando definiamo scienza una disciplina, nella nostra mente, per il retaggio di cultura scolastica tradizionale, le attribuiamo tre caratteristiche che derivano da una visione deterministica e galileiana:

  1. la scienza è conoscenza (cioè è in grado di spiegare di un fenomeno perché avviene, come avviene, che cosa in realtà succede)
  2. la scienza è capace di fare previsioni (quando qualcosa si verificherà, in quali forme, chi ne avrà vantaggio o svantaggio)
  3. la scienza può trovare soluzioni ai problemi.

Non è più così per nessuna disciplina scientifica.

Senza voler entrare in problemi di filosofia della scienza, semplificando, esiste una distinzione precisa tra scienze dure (hard science) come la fisica, la chimica e in gran parte anche la biologia e scienze molli (soft science) o, a me piace di più chiamarle scienze sociali o umane, come la sociologia, l’economia, la medicina. Nelle prime le situazioni sono replicabili, cioè in laboratorio o in natura posso ripetere un fenomeno che sto osservando quante volte voglio, posso definirne le caratteristiche attraverso il linguaggio matematico e posso verificare come, dati alcuni presupposti, da questi derivino sempre alcune conseguenze.

Nelle scienze umane i fenomeni che si osservano non possono essere replicati, non vi sono laboratori possibili, né è mai possibile ricreare le stesse condizioni.

Non è l’utilizzo della matematica o della statistica che garantisce per il risultato, ma è la falsificabilità. Secondo Karl Popper, uno dei più importanti epistemologi contemporanei, “Una teoria è scientifica nella misura in cui può essere smentita“, probabilmente ispirato da una frase di Einstein contenuta in una lettera del 1926 a Max Born, «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato».

In realtà da una parte il problema è nostro: abbiamo attribuito alla medicina, alla sociologia ed all’economia la stessa fiducia che attribuiamo alle scienze sperimentali, ma, pure se imbottite di cifre e di statistiche, anche se nutrite da ruminatori di numeri e da modelli matematici, non sono certamente scienze in quel senso. Dall’altra dipende dal linguaggio stesso di queste discipline che parlano di teorie, quando dovrebbero parlare di ipotesi e così via.

In pratica dovremmo attribuire ad ogni disciplina un gradiente di “affidabilità” che segue i principi di replicabilità e falsificabilità e procede per livelli diversi dalla fisica verso la psicoanalisi che Popper, che aveva lavorato a lungo con Adler, considera una pseudoscienza.

Ogni scienza genera una tecnica…e qui cominciano i problemi

Anche se non sono tutti d’accordo, io sono convinto che la medicina, l’economia o la sociologia abbiano contribuito, anche se in modo diverso (anche facendo danni diversi), alla nostra possibilità di vivere meglio. Dico solo che quelle che noi chiamiamo genericamente scienze non sono tutte uguali in termini di affidabilità, contenuto di verità e, quando diventano tecnologie, non sono tutte uguali per quanto riguarda le conseguenze sulla vita quotidiana delle persone.

Il progresso che attribuiamo alle scienze, infatti deriva dalle applicazioni delle scienze stesse: tecnologie o ingegnerie.  Se considero scienza qualsiasi disciplina accademica ed attribuisco a questa il portato di affidabilità delle scienze sperimentali, forse danni ne faccio pochi. Se per esempio la teoria della relatività di Einstein non fosse vera, avremmo qualche gadget tecnologico in meno, peccato, ma non avremmo un vero e proprio danno e nel complesso riusciremmo a cavarcela.

Se invece una teoria virologica o economica (bisognerebbe chiamarle ipotesi, non teorie) è sbagliata e ne facciamo derivare leggi, norme, protocolli clinici o scelte di ingegneria sociale, potremmo fare macelleria sociale e la vita delle persone ne risentirebbe profondamente.

Insomma le scienze umane non fanno male finché non me le applicano addosso, poi qualche rischio c’è. Quanti danni sono stati fatti alle persone da una visione accademica presuntuosa e infondata? Quante persone e famiglie hanno sofferto e sono state private di diritti che la società aveva garantito loro come conseguenza di tante conquiste sociali? La situazione Covid 19 che stiamo ancora vivendo e l’esperienza della Grecia sono emblematiche.

Una politica succube degli scienziati e dei tecnici può distruggere la società.

Secondo Kuhn (uno dei più importanti studiosi contemporanei di filosofia della scienza), le scienze dure sono orientate in ogni periodo storico da una specifica visione del mondo che indirizza l’attività degli scienziati selezionando i problemi di cui interessarsi, i fenomeni da osservare ed i metodi di ricerca da utilizzare e le ricerche da finanziare.

A maggior ragione le scienze umane non possono essere neutrali anche per la loro stessa natura. Si tratta infatti di punti vista, interpretazioni che generano ipotesi e seguono spesso tendenze o mode diffuse tra gli scienziati sociali. La scienza infatti non è mai qualcosa di astratto e separato dalla realtà nella quale viviamo. E tutto ciò aumenta il grado di indeterminatezza di queste scienze.

È importante quindi che, sia gli scienziati sociali che noi, abbiamo una maggiore consapevolezza rispetto al loro essere scienze, poiché la loro natura è legata alle persone ed alla società.

La politica non può e non deve trovare alibi o giustificazioni per le sue scelte mancate dietro a esperti, task force, Stati Generali; tutto ciò aumenta solo la confusione.

I soldi che arriveranno, da qualunque fonte, che sia l’Europa o l’emissione di titoli, non vanno spesi in prebende sussidi e mance, elettorali o demagogiche.

Come utilizzarli per risolvere davvero i problemi ormai è chiaro: pubblica amministrazione costosa, farraginosa e inefficiente; leggi di difficile attuazione, incomprensibili alla maggior parte delle persone; enti pubblici che non riescono a produrre progetti e gestire appalti; magistratura autoreferenziale con una giustizia civile e penale lunga, che non garantisce più la certezza del diritto e della pena;  sistema fiscale che ci obbliga sempre a ricorrere a commercialisti, patronati, Caf per riuscire a fare qualsiasi cosa; stato sociale sempre più debole; investimenti in scuola, ricerca e sviluppo e innovazione ridotti a pochi spiccioli a causa degli incredibili sprechi della macchina burocratica; parlamento ridotto ad mero ornamento, esautorato dai suoi compiti.

Non è un problema di soldi: è un problema di mentalità e di organizzazione. Ogni volta che chiediamo ad esperti, task force o ricorriamo a qualsiasi altra diavoleria, stiamo solo perdendo tempo.

Diciamocelo finalmente ed una volta per tutte, togliamoci gli alibi: la politica non è ascoltare, è rispondere ai problemi con soluzioni efficaci.