Non c’è alternativa: questa volta dobbiamo fare sul serio, oppure il malato muore. Il malato è l’Italia, tutta. Alcune regioni stanno meglio, altre sono davvero fortemente compromesse, ma la partita possiamo ancora giocarcela: guarire l’Italia gravemente malata.
Se questa premessa dovesse lasciar immaginare un qualche facile ottimismo, beh, forse ho sbagliato a scriverla così; tuttavia sono ostinatamente convinto che, nonostante tutte le difficoltà da affrontare, e sono tante, nonostante i cambiamenti profondi che sono richiesti alla nostra società, potremmo ancora farcela.
Abbiamo già affrontato alcuni degli aspetti critici e le possibili soluzioni pensando solo alla pandemia, in questo articolo del 10 Aprile. Qui l’approccio è diverso, è più complessivo poiché mai come ora abbiamo la necessità di cercare soluzioni organiche e l’allentamento dei vincoli strutturali forse costituisce per noi una opportunità.
Certo se vado da un medico a farmi una visita di controllo e, nel mio caso, non mi dice in maniera puntuale ed energica che sono sovrappeso, che fumo troppo e che non faccio sufficiente attività fisica, ma genericamente mi rassicura, senza responsabilizzarmi,… forse faccio bene a non avere molta fiducia in quel medico. Lo so che sono sovrappeso, fumo e sono un animale da poltrona, ma, come un po’ tutti salvo gli ipocondriaci, ho sempre alibi da invocare: io mi sento benissimo; insomma, se vai in giro e guardi le persone ci sono tanti più grassi di me; sai quel tizio ha vissuto fino a novant’anni e fumava come un turco, e così via.
Senza una lucida diagnosi di cui prendiamo coscienza in realtà non vi è alcuna possibilità seria di cura.
Quello che in questi giorni non vedo assolutamente è proprio la diagnosi, tutti concentrati come siamo a cercare di parare i disastri della pandemia. Non credo che si possa ripetere un’occasione come questa, una situazione così difficile che siamo obbligati a reagire. Se perdiamo questa occasione il futuro per l’Italia è la svendita a prezzo di saldo delle migliori aziende, la scomparsa di un saper fare, il nostro, praticamente unico al mondo. Dimentichiamoci per sempre le glorie di quando eravamo tra le principali economie del mondo. “Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche al mondo. Se avesse un sistema politico, amministrativo, sociale serio l’Italia sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti a tutti. Anche agli Stati Uniti.” Diceva il Nobel per l’economia Franco Modigliani; se avesse…, ma non li ha.
Quindi prima la diagnosi, poi la cura, almeno per come la vedo io. Nulla di quello che dico nel seguito è del tutto nuovo, ma farne una sintesi semplice, supportata da fonti autorevoli, certamente ne rende più viva la percezione e questa, almeno secondo me, è la prima condizione per avviarsi verso una cura efficace.
Partiamo quindi dalle malattie, raggruppandole per tema. Perdonatemi se ho dovuto aggiungere qualche numero, mi sono limitato a quelli secondo me più rappresentativi per “misurare la febbre”.
- Non cresciamo da almeno vent’anni, anche nel confronto con il resto d’Europa. Dal 2000 al 2019 il PIL dell’area Euro è cresciuto del 31% mentre quello italiano è cresciuto del 4% (Eurostat). Al 2019 il rapporto debito pubblico/PIL era pari al 134,8%, se noi fossimo cresciuti come la media degli altri paesi, a pari debito pubblico il rapporto sarebbe stato del 107% circa. Oggi ci troveremmo certamente molto meglio ad affrontare questo sconquasso. Purtroppo l’economia non si fa con i se e con i ma. Perché non cresciamo? In sintesi perché non c’è una vera e propria politica industriale. Non ci sono scelte chiare, le nostre infrastrutture sono vecchie e di cattiva qualità: dai ponti che cadono alla qualità delle linee internet che abbiamo scoperto essere essenziali per lavorare o studiare da casa. Non abbiamo saputo investire sull’innovazione e sulla ricerca, non abbiamo preservato e supportato adeguatamente i nostri punti di eccellenza, abbiamo aderito indiscriminatamente ad una globalizzazione selvaggia e squilibrata e non abbiamo saputo far crescere i nostri distretti produttivi. La nostra cultura del bello e fatto bene, fondata su un numero elevatissimo di piccole imprese, è stata quella che ci ha consentito il boom economico, che cosa abbiamo fatto per aiutare queste imprese a renderla viva e produttiva nel mondo attuale? Insomma non è certo per malasorte che non cresciamo.
- Il costo della burocrazia è troppo alto. Secondo l’Osservatorio Costi della PA dell’Università Cattolica l’incidenza del costo della burocrazia sulle piccole imprese è pari al 2,7% del fatturato e per le medie aziende è pari all’1,2% del fatturato, applicando questi valori ai fatturati si arriva ad un costo di circa 54 miliardi l’anno. Non è troppo lontano da quanto stima la CGIA di Mestre che stima il costo in 57 miliardi. Non basta: la PA a dicembre 2019 aveva debiti con i propri fornitori per 53 miliardi ed oltre ad un ritardo strutturale nei tempi di pagamento, costringe ad anticipare l’IVA riducendo ulteriormente la liquidità delle imprese.
- La pubblica amministrazione funziona male. Secondo la ricerca della Banca Mondiale Doing Business 2018, tra i 19 paesi dell’area Euro l’Italia è all’ultimo posto per il costo di avviamento di un’impresa e per i costi necessari a recuperare i crediti in caso di fallimento. Siamo al terzultimo posto per ore lavorative necessarie a pagare le imposte (238) e per ottenere una sentenza commerciale (1.120 giorni). Ci vuole di meno per ottenere il permesso per costruire un capannone (227,5 giorni), ma rimaniamo al quartultimo posto. E pensare che pochi anni fa eravamo orgogliosi di essere la quinta potenza economica mondiale! Il costo della Pubblica Amministrazione in Italia è pari a circa 175/180 miliardi e non è il più alto: Francia, Germania e Regno Unito spendono di più di noi, e pagano stipendi più alti dei nostri. Nella PA in Italia ci sono 3,2 milioni di dipendenti e negli ultimi 10 anni sono spariti 200.000 posti di lavoro tra autonomie locali e sanità. Il punto è che per la formazione di questi dipendenti la cui età media è di 54 anni, lo stato spende solo 49 euro a persona e che due uffici su tre non erogano servizi on line. Quindi la nostra PA non è efficiente.
- La pressione fiscale rispetto al PIL è eccessiva. Per quanto riguarda le persone fisiche siamo vicini alla media europea pari al 40,2 con il nostro 41,8%, praticamente come la Germania. La situazione cambia drasticamente se passiamo alle imprese. Con il 59,1% siamo secondi in Europa solo alla Francia, che ci supera con un 60,7%; in Germania, ad esempio la pressione fiscale è pari al 48,8% ed in Danimarca è pari al 46,2% (Eurostat). In realtà, anche se l’evasione pro capite in Italia è pari a 3.182 euro (rapporto Murphy – Parlamento Europeo), in Danimarca la pressione fiscale è inferiore di 13 punti percentuali e vi è tuttavia una evasione pro capite di 3.070 euro; in Germania di 1.522 euro.
Lo Stato in Italia recupera molto sulle accise sui carburanti che da noi pesano per 1,003 euro per litro, contro i 65 centesimi circa di Germania e Francia. Abbiamo poi la marca da bollo, che non esiste nelle altre nazioni, ed altre amenità. Per cui un italiano medio paga per queste micro-imposte da 1.500 a 2.000 euro l’anno. Non male vero? Solo in Portogallo ed in Bulgaria pagare le tasse è più complicato che in Italia; secondo la Banca Mondiale siamo tra i primi tre Paesi al mondo per complessità fiscale, preceduti da Turchia e Brasile, e siamo i primi in Europa in questa graduatoria degli asini.
- Con il COVID-19 le previsioni parlano di un crollo del PIL pari ad almeno il 10%, mentre ad aprile noi lo avevamo stimato pari ad almeno l’8,4%. La produzione industriale a marzo è crollata del 29,3%, nella media europea invece il calo è stato dell’11,3%. Certo siamo stati i primi a chiudere, ma siamo stati anche gli ultimi a riaprire. In quali settori stiamo perdendo mercato? Certamente c’è un forte calo di consumi interni, ma anche l’export comincia a dare segnali di allarme. Federalimentare prevede un calo delle esportazioni del 15% per il 2020, mentre l’ISTAT parla di un -13,9% sul totale dei beni esportati. I settori trainanti del nostro export, ovvero articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici, prodotti alimentari, bevande e tabacco, componentistica automotive, beni strumentali sono tutti in forte calo. Anche quelli legati all’immagine dell’Italia, come la moda, l’arredamento, la gioielleria sono in gravissime difficoltà e intere filiere fatte da migliaia di piccole aziende o laboratori artigianali di altissima qualità rischiano di essere definitivamente travolti dalla situazione. Che dire poi del turismo? Negli anni ’70 eravamo la prima destinazione turistica al mondo, … poi siamo riusciti a portare praticamente al fallimento la nostra compagnia di bandiera e da anni continuiamo a perdere quote di mercato. Oggi non riusciamo ancora a definire quattro stracci di regole sensate per ricominciare.
Purtroppo non finisce qui, la lista potrebbe essere molto più lunga: l’inefficienza della giustizia, che tra l’altro soffre di una sovrabbondanza di leggi (non si sa se solo quelle statali siano 170 mila o 111 mila), la confusione di ruoli tra stato e regioni, i bassi investimenti in scuola, sanità, ricerca, ma alla base di molti dei nostri mali c’è una cattiva relazione tra persone e istituzioni.
Ed è da qui che bisogna ripartire per la cura.