Conte è figlio della USP


5302898_1717_casalino_1_Solo lo stato di emergenza tiene in piedi questo improbabile governo.

Altro che storytelling e balle varie che oggi vanno tanto di moda. Le vecchie tecniche di comunicazione funzionano sempre, eccome se funzionano. Chiedetelo al duo Casalino-Conte!

Quando nel 1940 Rosser Reeves, che avrebbe poi curato la campagna per le presidenziali di Eisenhower nel 1952, teorizzò il modello di funzionamento della pubblicità che chiamò Unique Selling Proposition (USP), non avrebbe mai immaginato che ottant’anni dopo sarebbe stato utilizzato con grande successo da qualcuno per governare una nazione: l’Italia.

Come spesso succede le mode cambiano, nel marketing in particolare: dagli oceani blu al design thinking. Sistematicamente qualcuno si inventa e promuove un metodo garantito per vendere, trovare nuovi clienti, convincere, insomma per fare soldi.

Una cosa è certa: se è bravo a vendersi prima di tutto i soldi li fa sicuramente lui. Certo ha bisogno del supporto dell’Accademia, quella con la A maiuscola, di qualche articolo su prestigiose riviste scientifiche e magari di altri autori che vantino i prodigiosi risultati che si possono ottenere adottando quel metodo, ma non è così difficile se hai le conoscenze giuste.

Spesso si tratta di idee che magari funzionano anche, ma gli autori si dimenticano sempre di dirti due cose importanti: che non possono funzionare ogni volta e che il risultato non dipende da cosa fai, ma da come lo fai.

Con i vecchi metodi, basati su poche regole da seguire, il risultato eccellente ugualmente non è certo, ma qualche effetto si ottiene sempre.

Per non parlare in astratto facciamo un esempio. Lo storytelling. Il principio su cui si fonda è il fatto che da sempre nella nostra cultura occidentale, le storie si ricordano più facilmente delle affermazioni. È come se fosse una caratteristica del nostro cervello. Tutto il sapere, per migliaia di anni, si è costruito infatti attraverso la narrazione di storie: dalla Bibbia, all’Iliade fino ai grandi romanzi dell’Ottocento; attraverso queste storie si è creata la civiltà occidentale: i suoi valori, il costume, le tradizioni e così via. Insomma, la narrazione è probabilmente un sistema di comunicazione molto efficace.
Pensiamoci un attimo: secondo voi è la stessa cosa se una storia la scrive, che so, Hemingway oppure se la scrivo io? Come diavolo potete pensare che un qualsiasi copywriter riesca a scrivere, almeno qualche volta, storie che funzionino al punto da investirci soldi e legare il successo commerciale a quella storia?
Probabilmente funziona solo se il budget di comunicazione è molto alto. Come sempre.

L’USP si basa su tre semplici regole:
1.     Proporre un beneficio per il consumatore
2.     Questo beneficio non possa essere garantito da altri
3.     Il beneficio deve essere così vantaggioso che spinga milioni di consumatori all’acquisto.

Perché Conte è figlio della USP
Con il Corona virus gli italiani, atterriti dalle immagini delle televisioni e dai numeri del bollettino di guerra quotidiano; incapaci di spiegarsi le contrastanti opinioni degli esperti; preoccupati dalla mancanza di soldi, oppure reclusi in spazi dormitorio, hanno dovuto accettare una situazione mai vissuta prima in cui “l’uomo solo al comando” dettava le condizioni del vivere quotidiano, formalmente supportato da task-force, esperti, commissari.
Ogni giorno venivano annunciati proclami che, letti a distanza da quei momenti, oggi sembrano una commedia recitata da un attore mediocre, di fronte a spettatori che vivevano una tragedia.
Ed il messaggio era uno solo e sempre lo stesso: la paura.

Conte è passato senza arrossire o perdere l’aplomb della sua curata pettinatura dall’essere alleato di Salvini a diventare il suo più aspro nemico. La cronaca quotidiana ci mostra che i partiti che sostengono il governo non sono d’accordo su nulla ed ogni giorno litigano su qualcosa: ogni provvedimento è annunciato, rettificato, ritardato, modificato, sempre al di fuori di una normale dialettica democratica. Né dobbiamo dimenticare che i roboanti proclami, gli annunci tronfi e l’utilizzo di bazooka vantati, sono stati solo pessima retorica in un momento in cui avevamo (ed abbiamo) bisogno di fatti.
Il governo non ha in numeri nel paese, ma grazie alla democrazia parlamentare, potrebbe durare fino alle prossime elezioni: Conte ed i partiti che lo sostengono hanno bisogno dello stato di emergenza. È stato impudicamente aiutato dal Covid 19, o meglio dalla paura del Covid. Sta in piedi solo se questa paura continua ad agire sugli italiani: se li domina, li sottomette.
E stando in piedi, sopravvivendo nonostante tutte le sue criticità, nonostante il fatto che non rappresenti la maggioranza degli elettori, garantisce un beneficio a diversi gruppi di “consumatori”, proprio come prevedono le regole della USP.

Prima di tutto il beneficio.
Per i parlamentari della sua maggioranza è chiaro: finire la legislatura con tutti i vantaggi che ne conseguono.
Per l’Unione Europea la continuazione del governo Conte è una benedizione: un capitan Fracassa in fondo non fa molta paura. Finché il governo è nelle sue mani non ci sono rischi di derive audaci e magari tengono più facilmente sotto controllo una delle economie più grandi d’Europa.
Ma serve la promessa di un importante beneficio per gli italiani, per avere abbastanza consenso. Quale beneficio è così sentito, forte, capace di coinvolgere come la sicurezza per la propria salute? E più sei capace di seminare paura, più la promessa di sconfiggere il nemico diventa potente.

Qual è la situazione oggi?
Nonostante da più parti gli esperti affermino che l’emergenza sanitaria è finita o è sotto controllo e che abbiamo imparato come gestire eventuali nuovi focolai, Conte afferma con il suo solito piglio che il coronavirus “è ancora una sfida insidiosa”.
Oggi stiamo vivendo un’emergenza economica gravissima che riguarda le piccole aziende, le partite IVA, i lavoratori autonomi. Interi settori sono al collasso e anche i dipendenti che non hanno ancora visto la cassa integrazione sono preoccupati e non poco.
E molti annunciano un autunno difficilissimo.
Ma l’ombrello della proroga dello stato di emergenza fino a fine dicembre serve per poter prendere decisioni immediate, anche in deroga a ogni disposizione vigente. Garantisce la vita del governo. È una beffa al parlamento ed agli italiani.

È indispensabile però supportare la USP: la comunicazione sulla situazione del Covid in Italia continua ad essere negativa, allarmistica e catastrofista. Molti media continuano a stressare l’idea che ci sono ancora troppi focolai, che troppi non seguano le regole e che l’epidemia in molte regioni (la Lombardia ovviamente è il primo imputato) non sia adeguatamente controllata.
Lo stato di emergenza è un’arma potentissima che garantisce il prosieguo del governo. Il supporto a questa richiesta è il timore alimentato da piccoli focolai, nella maggior parte dei casi dovuti a persone che vengono dall’estero e non sono controllate adeguatamente.

Bisogna alimentare la paura, ma bisogna avere comunque una qualche forma di consenso e allora l’ipotesi di proroga dello smart working per i dipendenti pubblici, tanto che gli cambia alla maggior parte di loro e sono tanti, felici di lavorare da casa? I roboanti e fanfaroneschi proclami di miliardi in arrivo per grazia di qualche santo europeo per gli altri.

Più forte sarà il messaggio legato alla paura di tornare alla chiusura dell’Italia, maggiore sarà il numero di quanti accettano lo stato di emergenza come la soluzione ai problemi. Più forte sarà condizionamento collettivo più sarà improbabile che venga in mente alle persone l’idea di scendere in piazza.

Una unica selling proposition: la paura del Covid 19 ha tenuto in piedi questo improbabile governo e forse purtroppo gli consentirà di arrivare a fine legislatura evitando il confronto con la realtà del paese: il voto politico.

Al di là dei numeri ci sono le persone


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http://www.lirragionevole.it/economia-lavoro/il-futuro-e-nero/

Il futuro è nero!

Perdita di ricavi 30%*, impossibile da calcolare la perdita di posti di lavoro.

Ristoranti, bar, gelaterie, parrucchieri, estetiste e palestre saranno gli ultimi ad aprire e, forse, sono quelli che rischiano di più, prima di tutto per la loro natura di microimprese o di piccolissime aziende. Quanti di loro riusciranno a sopravvivere? Come stanno affrontando la confusione attuale di norme annunciate, ma non formalizzate, giusto per fare chiarezza. Di esperti in tutto che non riescono a partorire 10 regole comprensibile per spiegare a quali condizioni si può ricominciare a lavorare?

Sono moltissimi, rappresentano una grande parte di quella classe media italiana che con le sue attività nutre in maniera non marginale il bilancio dello Stato. A volte hanno una storia come imprese di famiglia o sono persone che hanno inventato un modo per vivere che, coniugando passione ed imprenditorialità, investendo in proprio ed assumendo persone, gli consente di vivere del loro lavoro. Hanno scelto orgogliosamente, spesso hanno seguito un sogno coltivato per anni, lavorano ben al di là degli orari sindacali, senza alcuna tutela, che si ammalino o che arrivi il corona virus. Oggi sono preoccupati non solo per il presente e per la prossima fase di riapertura dopo tre mesi di chiusura forzata, ma ancora di più per il loro futuro a rischio di indigenza, ma anche per il futuro dei loro dipendenti. Ylenia, parrucchiera ha sintetizzato la situazione sua e di tanti altri così: “la situazione è davvero critica, il futuro lo vedo nero!”

Se fino a ieri l’Italia si divideva in garantiti e preoccupati, già oggi si vede crescere a vista d’occhio un terzo gruppo: gli italiani disperati! Potrebbe essere uno sconvolgimento drammatico dell’architettura e della composizione della nostra società con conseguenze economiche, sociali e politiche imprevedibili.

 

All’interno di queste categorie che è previsto aprano a giugno ne abbiamo intervistati ventuno, dai 2 ai 70 dipendenti, con uno o più locali, proprio per capire qual è la loro condizione attuale e come vedono il loro futuro.

Hanno reagito con grande disciplina e senso del dovere alla chiusura imposta, ed all’inizio non tutti hanno sentito il morso delle drammatiche conseguenze che potevano derivare da questa situazione. Hanno chiesto ai proprietari dei locali di fargli uno sconto temporaneo sull’affitto, e alcuni l’hanno ottenuto; hanno messo in cassa integrazione i dipendenti (la grande maggioranza lamenta che a fine aprile nessuno aveva ricevuto i soldi) e poi hanno cominciato a vivere questa nuova condizione da reclusi fatta di televisione, chat, incertezza, notti insonni e pensieri.  Con il passare dei giorni, con l’aggravarsi della situazione e con la confusione generata dalle indicazioni degli esperti e dalle norme, attraverso il confronto con i colleghi, è emersa la percezione di un disastro.

Abbiamo chiesto ai nostri interlocutori come si stanno preparando alla riapertura del 1° giugno, che cosa prevedono per la loro attività quest’anno e come vedono il futuro del loro lavoro.

 

Prima di tutto è emerso che una parte dei nostri interlocutori condiziona la possibilità di riapertura alla definizione precisa dei protocolli sanitari, delle regole e dei supporti finanziari (quanto e quando) che saranno resi disponibili. Un ristoratore ci ha detto: “se chiederanno la distanza tra i tavoli di 2 metri, l’aria condizionata spenta, i divisori tra i tavoli, di conseguenza la riduzione di due terzi del numero di coperti e l’abolizione del menu su carta, non ci saranno le condizioni per aprire. Sarebbe indispensabile almeno una moratoria per le tasse per il 2020, cancellarle, non rimandarle, ed agevolazioni di tutti i tipi: affitti, utenze, e poi aiuti concreti per sopportare i maggiori costi dovuti a questa situazione.”

Chi conta invece sulla riapertura si divide grossomodo in due gruppi: quelli che aspettano le normative per valutare e capire, un titolare di palestra ha detto: “non mi sto preparando finché non sappiamo tempi e protocolli, quando è tutto chiaro ci rivolgeremo ai nostri fornitori per i presidi necessari e per le sanificazioni”. Ed ancora una parrucchiera estetista dice: “siamo stati dimenticati e non solo la mia categoria. Con tutta la confusione che c’è, con le continue anticipazioni, spesso contraddittorie, non spendo soldi se prima non pubblicano ufficialmente le regole. C’è un caos totale, voci di ogni tipo, solo ipotesi”.

Un altro gruppo ha invece già idee su come riaprire, anche se ogni tipo di attività ha le sue problematiche specifiche e si orienta di conseguenza. A parte i ristoratori che per primi sono riusciti ad attivare il delivery e l’asporto, che certo non bastano per sopravvivere, ma hanno consentito di tenere accese le macchine, gli altri fanno affidamento per la riapertura su suggerimenti degli esperti del settore, (spesso fornitori) o su indicazioni fornite dalle associazioni di categoria. Altri ancora si basano su chat con gruppi di colleghi o su quello che hanno sentito dire in televisione. Una parrucchiera ci ha detto: ”una cosa è certa: avremo un sacco di spese ancora prima di riuscire a riaprire

 

Le previsioni di ricavi per il 2020 nell’opinione dei nostri interlocutori vanno da una perdita del 50% al 70%, non solo a causa dei tre mesi di chiusura, dei maggiori costi e dei minori ricavi legati alle nuove regole, dell’innegabile percezione di un forte impoverimento dei clienti, ma anche perché nessuno si aspetta, neanche i pochi ottimisti, che le persone escano rapidamente da questa situazione. Un ristoratore si chiede. ”apriremo le nostre porte, apparecchieremo tutto secondo le nuove norme, seguiremo tutte le procedure, ma i clienti verranno? Avranno fiducia?”

Il centro studi di Unimpresa stima che a giugno il 30% delle attività legate al commercio ed alla ristorazione non riaprirà e di conseguenza si allargherà moltissimo la platea dei disoccupati aggravando una crisi sociale già percepibile.

 

Le condizioni necessarie per far sopravvivere le loro attività sono legate ad alcuni punti sostanzialmente uguali per tutti: chiarezza sulle regole di funzionamento delle loro attività, possibilità di proseguire con la cassa integrazione per i dipendenti, cancellazione degli adempimenti fiscali per il 2020, apporto di liquidità a fondo perduto pari almeno ai costi che devono sostenere per rispettare le nuove norme, semplificazione degli adempimenti burocratici e possibilità di ottenere dalle banche finanziamenti a tassi agevolati con tempi di restituzione lunghi. Senza queste condizioni la soluzione per tutti gli intervistati è il licenziamento del personale ed il rischio di chiusura entro la fine dell’anno diventa molto elevato. Se si considera poi l’impatto drammatico sul turismo, l’impatto sul PIL e sulle finanze pubbliche è difficile da immaginare e le conseguenze non sono prevedibili: potrebbe innescarsi una reazione che coinvolgerebbe una grandissima parte della popolazione, compresi forse anche alcuni dei garantiti. (aggiungere link all’articolo garantiti e preoccupati?)

 

C’è un altro aspetto che ci preme sottolineare: i numeri sono aridi, non raccontano la realtà delle persone. Quelle chiusure non sono solo saracinesche che probabilmente rimarranno chiuse a lungo, o soldi investiti che nessuno recupererà, sono delusioni, frustrazione, famiglie impoverite, ma anche facce tristi, notti insonni, malattie (pochi stanno sottolineando che all’impoverimento corrisponde un aumento delle malattie ed una minore attenzione alla salute), minore investimento sulla formazione dei figli, minore natalità, qualcosa insomma che se consideriamo le persone e non i numeri provoca brividi.

Chi ha la possibilità di trovare soluzioni deve guardare in faccia queste persone, non solo i numeri?

 

IL LAVORO DA CASA: COSA NE PENSANO GLI IMPRENDITORI?


A cura del Centro Studi dell’Associazione Tra Il Dire e Il Fare

Questo lungo periodo di reclusione e di chiusura forzata delle attività a parere di molti ci lascerà una eredità: il lavoro da casa, nuovo modo di organizzare le aziende e la vita. Ci siamo chiesti: che cosa ne pensano gli imprenditori delle piccole e medie aziende, quelli che hanno da 5 a 50 dipendenti? Abbiamo così deciso di fare un po’ di interviste e ne abbiamo sentiti 24, tra professionisti, artigiani, imprenditori della manifattura e dei servizi, di diverse fasce di età e con diversi livelli di formazione, chiedendo quali sono, dal loro punto di vista, i vantaggi e gli svantaggi.

Utilizzeremo il termine smart working solo quando è stato adoperato dagli intervistati; a noi non piace sia perché nella parola smart c’è già un velato giudizio positivo, sia perché non basta fare un po’ di telelavoro, qualche videoconferenza o partecipare ad un gruppo su WhatsApp per parlare di lavoro smart. Le parole, lo sappiamo bene, spesso sono come le confezioni che servono per vendere meglio un prodotto, così dimentichiamo il significato che hanno. Articoli, post, interviste per celebrare questa “nuova” modalità di lavoro, che in passato, quando si chiamava telelavoro, non ha avuto molto successo. Che cosa ne pensano gli imprenditori?

Molto interessante la premessa di un imprenditore dei servizi che chiarisce:” questo non è smart working ma home working forzato: è una misura che rappresenta un esperimento sociale mai provato prima. Sulla esperienza attuale non ci si può fondare nessuna organizzazione futura perché la situazione è straordinaria e per l’appunto forzata”.

Un bel punto di partenza; ha ragione, dobbiamo certamente definire meglio che cosa è e che cosa non è smart working. Magari in un altro articolo.

Come era prevedibile vi sono grandi differenze tra le aziende di servizi e quelle manifatturiere. Le prime infatti, proprio per la loro natura, hanno in genere un migliore livello di dotazioni e alcune attività o processi già informatizzati. In qualche caso gli imprenditori affermano che teoricamente si possa estendere il lavoro da casa alla quasi totalità dei dipendenti, anche se è sentita l’esigenza di mantenere un elevato livello di continuità nel lavoro in azienda. Al contrario gli imprenditori della manifattura, per la natura stessa delle loro aziende, ritengono che solo poche funzioni come l’amministrazione, il centralino e la gestione della comunicazione e dell’e-commerce possano usufruire del lavoro da casa. Entriamo nel merito.

vantaggi di una estensione del lavoro a distanza per gli imprenditori sono: migliore utilizzo degli spazi aziendali e minori costi di gestione.

Tre degli intervistati si aspettano un qualche miglioramento delle prestazioni dovuto alla maggior flessibilità ed al minore stress dei dipendenti per gli spostamenti, o pensano che ci sia maggiore facilità nella gestione delle risorse umane e delle mense aziendali. Qualcuno segnala anche la possibilità che si riducano le tensioni tra colleghi, anche se è diffusa l’idea che il lavoro da casa possa favorire i “furbetti”.  Solo uno degli intervistati scommette fideisticamente sul miglioramento della produttività, mentre la maggior parte sottolinea che dovranno essere definite nuove regole per la gestione dei rapporti di lavoro. “lo Smart working può funzionare – dice un imprenditore dei servizi – ma solo se vengono dati obiettivi ben definiti e in ogni caso non può essere totalmente sostitutivo dell’attività tradizionale”C’è infine chi è possibilista e pur temendo la perdita del contatto diretto, i cali di produttività nel tempo ed i rischi tecnologici (riservatezza dei dati, controllo del lavoro, ecc), ritiene che siano svantaggi rimediabili mediante la costruzione di un’organizzazione che ruota, per alcune sue parti, attorno al lavoro da casa come elemento base.

Per quanto riguarda invece gli svantaggi quasi tutti gli imprenditori hanno messo in evidenza gli stessi aspetti: dal “poco controllo del lavoro svolto, anche in termini di qualità”, all’ impossibilita di gestire un lavoro di squadra in quanto, anche se ognuno fa la sua parte, a è difficile il coordinamento. Il rapporto interpersonale infatti consente maggiore rapidità nel risolvere un problema e la comunicazione diretta rende più coesa e più efficiente l’organizzazione.

Praticamente tutti sottolineano in maniera più o meno accentuata che, mancando il confronto continuo ed il rapporto diretto con i colleghi, si perda in efficacia del lavoro e la motivazione si riduca.

Una critica importante al lavoro da casa è la perdita delle relazioni sociali. Lavorando con altri, condividendo gli spazi, non solo si crea gruppo, ma si condivide una cultura ed una visione comune, al contrario lavorando da soli si tende a diventare più individualisti. Un’imprenditrice ha detto:” nel mio lavoro, editoria specializzata, quasi tutte le mansioni possono essere svolte in smart working: completamente, anche se con qualche disagio se in modo continuativo; giornalisti, grafici, traduttori, centralino, ufficio traffico, account, ma nel mondo dei media dove la ricerca, l’osservazione sul campo e le relazioni sono fondamentali, non può sostituire il lavoro fatto di persona. Per fortuna niente e nessuno potrà mai sostituire il contatto umano. Ritengo, per la nostra esperienza, che lo smart working uno o massimo due giorni a settimana possa essere anche funzionale, oltre sia un problema per l’azienda ma anche per la persona stessa che non sarebbe stimolata e al passo.”

Un altro imprenditore mette in evidenza un altro aspetto interessante del problema: la possibilità per i collaboratori di lavorare da casa con la giusta concentrazione: “in periodo coronavirus, alcuni lavoratori hanno preferito andare in ufficio, dove disponevano di spazi adeguati. A casa propria, i propri famigliari (mogli, mariti, figli) rendono difficile la concentrazione ed il raggiungimento dei traguardi prefissati”.

La maggioranza si esprime in modo cauto, tuttavia vi è anche chi ha una visione decisamente contraria: “lo Smart working non dà nessuno vantaggio, un dipendente deve vivere l’azienda a 360 gradi, può essere uno strumento temporaneo da usare per andare incontro a specifiche esigenze del dipendente (vedi gravidanza, figli, ecc) ma non è un modus che vedo come la normalità di lavoro”. O ancora chi dice che “Lo Smart working può andar bene solo per quei lavori avulsi da qualunque interazione e da qualunque motivazione lavorativa. Ad esempio, potrebbe funzionare per un data entry che deve inserire dati in modo automatico e senza sapere perché lo sta facendo, senza nessuna necessità di integrarsi con l’azienda”.

Che il tema sia da approfondire non c’è dubbio. Sono anni che gli HR e gli esperti del lavoro ci parlano di fare squadra, di team building, fanno analisi di clima, sottolineano che la maggiore complessità richiede contesto e relazioni per competere con successo, ed ora…ciascuno a casa sua è meglio!

Ci sono poi problemi sui quali la riflessione è indispensabile: come avverrà l’introduzione dei nuovi collaboratori in azienda? L’affiancamento con un collega esperto e l’inserimento in un gruppo sono sempre state le modalità migliori. Questo riguarderà in particolare i giovani che escono dalla scuola con una formazione troppo spesso teorica, ma non solo.

Chi ha lavorato da casa in questo periodo ha scoperto che le piattaforme non sono tutte uguali, e che per lavorare e non solo fare chat lo smartphone non va bene, serve un computer (aziendale per tutelare le informazioni), ma soprattutto che la qualità della connessione, anche nelle grandi città, è un fattore determinante.

Per rendere utilizzabile il lavoro da casa o per attivare un vero smart working evitando la precarizzazione, prima di tutto occorre un apposito contratto diverso da quello di lavoro subordinato. È necessario un profondo cambiamento culturale da parte dei lavoratori e delle imprese: si passa infatti da una cessione del tempo e delle competenze a fronte di una retribuzione, ad un rapporto nel quale la prestazione deve essere valutata e ricompensata sia dal punto di vista economico che da quello dello sviluppo di carriera sulla base di obiettivi e risultati misurabili.

Di Antonio Catalani, Centro Studi Tra Il Dire e Il Fare